top of page
marcobecherini159

Come le piante hanno addomesticato l'uomo

“In quel momento apparve la volpe.

<<Buon giorno>>, disse la volpe.

<<Buon giorno>>, rispose il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.

<<Sono qui>>, disse la voce, <<sotto al melo…>>

<<Chi sei?>> domandò il piccolo principe. <<Sei molto carino…>>

<<Sono una volpe>>, disse la volpe.

<<Vieni a giocare con me>>, le propose il piccolo principe, <<sono così triste…>>

<<Non posso giocare con te>>, disse la volpe, <<non sono addomesticata>>.

<<Ah! Scusa>>, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: <<Che cosa vuol dire “addomesticare”?>>

[…]

<<E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire “creare dei legami”…>>

<<Creare dei legami?>>

<<Certo>>, disse la volpe. <<Tu, fino a ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo>>.”


“Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupery


Va bene ora basta con questi tuffi nel passato… giuro che non sto piangendo, eh, no no… mi è solo entrata un po’ di infanzia in un occhio.


Il fatto è che volevo scrivere un articolo sull’addomesticamento; e che fai, lo scrivi senza citare il piccolo principe? No! Sono cose che non si fanno.



Yuval Noah Harari

In verità l’addomesticamento di cui volevo parlare è una cosa molto più seriosa. Non è, come si suol dire, farina del mio sacco (espressione alquanto in linea col tema dell’articolo), ma è un’idea del grandissimo storico israeliano Yuval Noah Harari. Docente di World history e scrittore, Harari è autore di vari saggi poderosi; uno di questi si intitola “Sapiens. Da animali a dèi” e si propone il modesto obiettivo di raccontare, come dice lo stesso sottotitolo, una “breve storia dell’umanità”: dalla comparsa dei primi esemplari di Homo sapiens ai giorni nostri, toccando gli argomenti più disparati, dalla religione all’economia. Si tratta di un libro scorrevole e illuminante, pieno di riflessioni geniali su vari ambiti della storia umana; insomma lo consiglierei caldamente a chiunque. Ma in questo articolo volevo parlare di quello che in verità è solo un piccolo spunto di riflessione in uno dei tanti capitoli del saggio.


Nel quinto capitolo, Harari affronta il tema della Rivoluzione agricola che circa 10.000 anni fa portò i nostri antenati ad evolversi da raccoglitori e cacciatori nomadi ad agricoltori sedentari. Normalmente viene descritto come uno dei momenti principali della storia umana: la scoperta dell’agricoltura avrebbe consentito lo sviluppo di comunità umane via via più numerose, sostentate grazie al frumento. Harari però definisce la Rivoluzione agricola come “l’impostura più grande della storia” e la analizza da un punto di vista inusuale: quello del frumento stesso.


Prima della Rivoluzione agricola, il frumento cresceva solo come erba spontanea nella zona del Medio Oriente ed era sempre soggetto al rischio di venire mangiato dagli animali o guastato da larve e batteri. Dopo la Rivoluzione, invece, cresceva in quantità industriali. Oggi esso è diffuso in tutto il mondo e viene coltivato in piantagioni che, a livello globale, coprono più di due milioni di chilometri quadrati di superficie: per intenderci, dieci volte la Gran Bretagna oppure otto volte l’Italia.


Da un punto di vista evoluzionistico, una specie ha tanto più successo quanti più sono i suoi esemplari: ne consegue che il frumento ha avuto un successo immenso. Da un punto di vista matematico si potrebbe dire che anche l’essere umano ha avuto un successo simile, proprio grazie al frumento che ha dato la possibilità di sfamare un numero crescente di bocche. Tuttavia quello che per uomini e donne fu un successo quantitativo, non fu un successo qualitativo. La vita da raccoglitore nomade di piante spontanee che i sapiens conducevano prima era paragonabile a quella che avrebbero poi condotto come contadini, in termini di fatica, ma perlomeno consentiva una dieta più varia e ricca, cui si aggiungevano poi le proteine della cacciagione. I sapiens divenuti contadini, invece, si sarebbero nutriti solo col frumento che coltivavano, dato che le varie fasi della coltura sottraevano loro tutto il tempo. Il frumento infatti necessita di spazi quanto più possibile puliti da sassi e pietrisco: così gli uomini dovettero passare giornate intere chini a pulire il terreno. Il frumento però necessitava pure di spazi puliti da altre piante, le quali gli avrebbero sottratto sostanze nutritive; così gli umani dovevano sarchiare i campi ed estirpare erbacce. Era poi indispensabile un lavoro di irrigazione, per portare l’acqua alla piantagione: così gli umani dovettero ingegnarsi a scavare canali e deviare torrenti. Tutto questo per non menzionare l’opera di costante sorveglianza contro gli animali selvatici.


In definitiva i sapiens dovettero modificare drasticamente lo stile di vita che avevano avuto per milioni di anni. Se anche riuscirono a cambiare le loro abitudini, il loro corpo però non cambiò altrettanto rapidamente. La loro anatomia era adatta ad arrampicarsi sugli alberi o a rincorrere le prede, non a stare chini in un campo per ore e ore: la spina dorsale ne risentì, le ginocchia e il collo ne pagarono lo scotto. L’ernia al disco divenne un malanno comune, che non sarà mai debellato, del resto: se ancora oggi ne soffriamo è perché i nostri antenati si vollero mettere a coltivare i campi pur non essendovi portati.


La domanda a questo punto sorge spontanea: fu davvero l’uomo che addomesticò il frumento, asservendolo al benessere della specie? Non fu piuttosto il contrario? Non fu semmai il frumento ad addomesticare l’uomo? Il termine “addomesticare”, checché ne dica la volpe, viene dal latino domus e vuol dire “dare una casa”: e chi è che è stato costretto a prendere casa in un luogo stabile, con lo scopo di badare al campo?



Comments


bottom of page