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Immagine del redattoreMatteo Mannucci

Congiuntivo, modo del dialogo


“Dialogare significa essere convinti che l’altro abbia qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista [...], senza cadere, ovviamente, nel relativismo. E per dialogare bisogna abbassare le difese e aprire le porte”.

Così Papa Francesco afferma in occasione di uno dei messaggi pontifici “Ubi et Orbi”.

Dialogare. Verbum unicum et rarum se penso all’oggi (e al domani che stiamo progettando, ma pure al passato di cui ci dimentichiamo: è bene dirlo, pericoloso e controproducente sarebbe cadere in una deprecatio temporum che ci renderebbe infingardi).

La guerra in Ucraina, i conflitti dimenticati, le crisi umanitarie, la sostenibilità “scomunicata”, i problemi climatici e quant’altro. Frutto di interessi economici e politici, in mano a gruppi di potere ottemperanti alla scelta deliberata di essere ciechi e sordi davanti ai bisogni dell’umanità: una privazione dalla possibilità di ascoltare il mondo e chi lo rende vivo. Tutti noi siamo succubi di un paradigma comunicativo che è gerarchico, trasmissivo ed emulativo (gerarchico perché impone sulle persone che lo agiscono una scala gerarchica che non rispetta il potenziale dei singoli soggetti coinvolti in uno scambio comunicativo; trasmissivo perché non vi è rapporto biunivoco tra interlocutori; emulativo perché tende a rendere simili a sé tutte le persone con cui entra in contatto).

Dovremmo invece ribellarci, cercando di azionare un paradigma invece generativo di conoscenze e di realtà inedite, facendo leva sull’ascolto e sulla partecipazione attiva di ogni membro vivente su questa Terra. Di fatto sul pianeta Comunicazione si protrae da anni uno scontro terribile tra due continenti: il primo, costituito dalle inedite potenzialità della comunicazione (arricchite dalle nuove tecnologie che hanno in sé la forza in potenza di collegare e scollegare ciò che prima era diviso e unito); il secondo, rappresentato dall’uso effettivo della comunicazione, legato ancora a modelli superati dalla Storia e intenti a non farci ammettere la necessità di progettare un nuovo umanesimo.




È importante dunque diventare consapevoli di quanto le tecnologie emerse negli ultimi decenni possono unirci non solo a livello di connessioni, indice della grande energia procreata, ma anche a livello di intenti e obiettivi. Tale forza creativa, tuttavia, se mal incanalata, come per altro avviene in epoca contemporanea, è potenzialmente distruttiva, centrifuga, disgregante.

Forse allora servirebbe un passo indietro da parte di tutti, e ricordarci che noi umani siamo “essere”, non “avere”: non nasciamo dai beni che accumuliamo, ma dalle scelte e dai comportamenti che assumiamo, dai saperi che viviamo. Mi piace pensare che il primo passo sia quello di allontanarsi ciascuno dalle piccole certezze che talvolta ci rendono ciechi, o persino indifferenti dinanzi alle ragioni altrui: ripartire dal congiuntivo, insito in qualsiasi punto di vista opinabile. Il congiuntivo, il modo con cui esprimere dubbi, con cui lasciare aperta la porta a opinioni divergenti dalla nostra (che nel frattempo, pertanto, non è diventata dogma, perché ha posto il fianco al dialogo), può diventare una forma mentis. Non che se ne debba abusare, altrimenti si originerebbe un paradossale relativismo: avere delle sicurezze è ovviamente utile, rassicurante e salvifico; alcune invero sono incontrovertibili. Il problema, secondo me, insorge laddove se ne hanno troppe... e, in questo caso, le certezze possono diventare un limite. Un limite alla curiosità, alla crescita, alla vita.

Quanto detto, tout court mettersi in discussione, potrebbe apparire a tutti noi una fatica immane. Addirittura una perdita di tempo. E non c’è da stupirsene: cosa aspettarsi da una società che è figlia di tempi frenetici e ossessivi, dell’hic et nunc traslati in un tutto e subito caotici e magmatici, frutto dell’esplosione delle coordinate spazio-temporali, amplificata dall’avvento del digitale multimediale e ipermediale? Cosa aspettarci dai Signori della comunicazione, che, facendo un esempio banale ma secondo me rappresentativo, hanno lanciato quell’onda d’urto del 1,5X/2X applicata ai vocali su whatsapp? Optare per il raddoppio di velocità, se riflettiamo, è un po’ un insulto alle capacità umane: è impossibile capire le parole del nostro interlocutore a un ritmo che non appartiene all’uomo. Allora tanto vale non entrare su whatsapp se non vogliamo ascoltare con i giusti tempi... tanto vale aggiornare lo stato in “Non rompetemi le *****”. Come se non avessimo bisogno, anche a distanza, giovani e adulti, di sentirci accolti e considerati, con la vanità di essere un po’ speciali nel quanto, non so, di affetto che circola tra la gente. Come se non avessimo la necessità di sentire le sfumature della voce di chi interagisce con noi. Non è un caso che questa architettura divisionista sia giunta dopo i lockdown per la pandemia. Pertanto mi chiedo: adesso abbiamo più o meno tempo rispetto a quando non c’era il Covid? O semplicemente è una strategia per prolungare nei rapporti interpersonali il divide et impera, necessario e forzato in quarantena, ma insensato nei periodi con minor percentuale di contagiati?

Come fare in una società in cui conta di più avere che essere, in cui a vincere è il più forte, ossia colui che accumula in minor tempo possibile? Come fare in una società dove tutto si consuma e si usura in un clic, dove non studiare o non lavorare a vent’anni vuol dire non essere competitivi nel mercato umano e poco ambiziosi?

Credo che sia necessaria un po’ più di umanità e meno spasmodica voglia di sopraffazione e autocompiacimento. Il congiuntivo, modo del dialogo, potrebbe esserne la cura, benché interloquire attivamente e seriamente richieda tempo e sacrificio. Eppure è attraverso un buon ascolto che nascono confronti proficui, i quali a loro volte generano identità forti e personali, ma non tracotanti. D’altronde, come affermava Winston Churchill:


“Il coraggio è quello che ci vuole per alzarsi e parlare; il coraggio è anche quello che ci vuole per sedersi ed ascoltare”.

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