Entrando in Piazza della Signoria da Via dei Calzaiuoli e volgendo lo sguardo verso la porta d’accesso al maestoso palazzo medievale, subito si fa notare in tutta la sua imponenza: fiero, maestoso, pensante. Sono solo alcuni degli aggettivi che possiamo attribuire al giovane protagonista della piazza sopracitata, il celeberrimo David di Michelangelo.
“Veramente che questa opera ha tolto il grido a tutte le statue moderne et antiche, o greche o latine che elle si fossero”
Questa citazione di Vasari ci fa subito capire quanto questa statua fosse stata subito apprezzata dai contemporanei, tanto da diventare un simbolo non solo da emulare nelle sue forme e proporzioni, ma un vero e proprio modello della scultura universale.
Michelangelo Buonarroti nacque nel 1475 a Caprese (oggi Caprese Michelangelo in suo
onore), in provincia di Arezzo. Fin da bambino fu incline alle discipline artistiche: maturando, egli vide nella scultura la massima espressione d’arte, poiché per realizzare una statua si procedeva col togliere materiale dal blocco. Egli infatti scrisse “Tu vedi un blocco, pensa all’immagine: l’immagine è dentro basta soltanto spogliarla.” e poi ancora “Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare”, contrapposta alla pittura, che invece “quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura: basta, che venendo l’una e l’altra da una medesima intelligenza, cioè scultura e pittura, si può far fare loro una buona pace insieme, e lasciar tante dispute; perché vi va più tempo, che a far le figure.”.
L’eco della straordinaria bellezza della Pietà Vaticana (1498-1499) aveva già investito l’artista aretino di gloria, quando nel 1501 ottenne una nuova commissione da i consoli dell’arte della lana e dagli operai del Duomo di Firenze. Egli fu incaricato di scolpire il Re David, da porre su un contrafforte della zona absidale di Santa Maria del Fiore, da un gigantesco blocco di marmo che era stato “male abbozzatum et sculptum” dapprima da Agostino di Duccio e poi da Antonio Rossellino. I due artisti appena citati abbandonarono l’opera a causa della scarsa qualità del supporto su cui si ritrovarono a lavorare: questo era costellato di crepe e fori, detti taroli, ed era soggetto a una particolare reazione, ovvero la cottura, che consiste nella perdita di coesione tra i cristalli che costituiscono il marmo. Anche la forma del blocco, a detta del Duccio e del Rossellino, costituiva un altro problema di primaria importanza: il suo essere alto e stretto non consentiva una piena realizzazione delle forme anatomiche; inoltre, il marmo era particolarmente rovinato nella zona che sarebbe corrisposta al braccio sinistro, si temeva dunque che, una volta finita l’opera, questa sarebbe crollata in quanto incapace di reggere il peso.
Michelangelo, nonostante le premesse a dir poco disastrose, non si perse d’animo e, anzi, accettò l’incarico, prendendolo come una vera e propria sfida. I lavori presero ufficialmente inizio il 13 settembre del 1501 nel cortile di quello che oggi è il Museo dell’Opera del Duomo. Un mese più tardi, per ripararsi dagli occhi indiscreti dei fiorentini che volevano ammirare “il gigante”, egli si fece costruire intorno un recinto di tavole. Questo fu uno dei motivi che contribuirono, nell’immaginario collettivo, ad avvolgere la realizzazione del capolavoro michelangiolesco in un’atmosfera di trepidante attesa e mistero. Questo fu svelato il 23 giugno del 1503, quando l’opera era stata quasi terminata: si invitarono così i fiorentini ad accorrere presso il luogo di realizzazione, scoprendo così
un’iconografia del soggetto del tutto nuova; il giovane biblico era stato rappresentato senza la testa di Golia sotto i piedi, dunque nell’atto immediatamente precedente allo scontro. Michelangelo, inoltre, era riuscito perfettamente nella sua impresa: nonostante la scarsa qualità del marmo, egli aveva risolto il problema riempendo le fenditure con malta di calce, restituendo così all’intero blocco la tipica levigatezza delle sue sculture.
Dopo il successo riscosso dell’opera, quella che doveva essere la collocazione originale, fu immediatamente scartata: fu così costituita una commissione di artisti incaricati di scegliere una nuova. Tra tutte quelle proposte, il luogo suggerito da Giuliano da Sangallo fu quello prediletto: accanto alla porta d’accesso principale al Palazzo della Signoria, non solo per il motivo simbolico che gli era stato attribuito all’opera, ma anche per proteggerla dalle intemperie. Il David incarnava gli ideali della neonata Repubblica: un giovane, armato solo di una fionda e della fede in Dio, era riuscito a sconfiggere un gigante; allegoricamente si trattava di associare tale immagine a quella di un buon governo, che provvede al bene comune e alla libertà, protetto dalla benevolenza divina.
Il trasporto dell’opera non fu per niente semplice: ci vollero quattro giorni (dal 14 al 18 maggio 1504) per arrivare dall’Opera del Duomo a Piazza della Signoria. Del trasferimento furono incaricati oltre quaranta uomini, i quali dovevano sorvegliare la statua anche di notte, in particolare dopo un assalto compiuto da dei filo-medicei.
L’opera michelangiolesca, purtroppo, non ha avuto vita facile: a causa di fattori puramente ambientali, ma anche veri e propri assalti, è stata più volte danneggiata nel tempo, così che vari sono stati i rifacimenti di epoche successive per quanto riguarda alcune parti della statua. Nel 1873, dunque, il David fu spostato all’interno di Galleria dell’Accademia, dove si trova ancora oggi. Nel 1910 fu realizzata una copia del gigante, che fu posta in Piazza della Signoria.
Purtroppo, però, anche il suo gemello non ha avuto dei trascorsi migliori. In particolare vorrei soffermarmi sull’ultimo atto vandalico compiuto ai suoi danni. Il 6 marzo di quest’anno, data in cui ricorre la nascita di Michelangelo, il sindaco di Firenze Dario Nardella ha deciso di coprire, in segno di lutto per la guerra in Ucraina, il gigante protagonista di Piazza della Signoria, giustificando la sua scelta con “Il David è il simbolo della lotta contro la tirannia”. La scelta, per qualcuno è stata poco ponderata, ribadendo in più occasioni che in quanto simbolo di libertà, la statua-simbolo andava valorizzata, anziché coperta. Portavoce di questa protesta è stato Eike Schmidt, direttore della Galleria degli Uffizi, che nel corso di un’intervista ha affermato “Le statue nei musei e sulle piazze delle nostre città hanno un forte valore non solo artistico ma educativo, poetico, identitario, di incoraggiamento individuale e collettivo. Vestirle o tatuarle con proiezioni di loghi commerciali o di messaggi politici falsa il loro senso e nolente o volente le banalizza, spesso ridicolizzandole. Coprirle invece completamente, per qualunque motivo, equivale a una censura, e pertanto si oppone ai fondamenti della società libera”.
Nella notte dell’11 marzo, il giorno precedente a quello della rimozione del drappo, quest’ultimo va letteralmente in fumo. Il David va a fuoco. L’autore del gesto è Vaclav Pisvejc, artista ceco di nascita, che ha causato ben 15.000 euro di danni. Solo qualche giorno prima aveva imbrattato con i colori giallo e blu, in segno di solidarietà all’Ucraina, il Leone Rampante di Francesco Vezzoli.
Possiamo riconoscere nell’atto dello pseudo-artista, non credo sia possibile attribuirgli altro titolo, quella che vuole sembrare a tutti gli effetti un’emulazione dei grandi street artist, come per esempio Banksy. Mentre in quest’ultimo caso le sue opere e le sue “incursioni” sono a carattere prettamente di denuncia sociale e, soprattutto, non danneggiano opere a disposizione del pubblico, il primo caso, quello di Pisvejc, è un vero e proprio attentato al patrimonio artistico in primo luogo fiorentino e, poi, collettivo. Una lezione che, speriamo, ci ricorderemo per gli anni avvenire: l’arte è sì libera, ma anche lei segue e deve seguire delle regole.
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