Banksy: questo è lo pseudonimo utilizzato da uno dei più grandi street-artists (i campi dove opera maggiormente sono il post-graffiti e la guerrilla art) di tutti i tempi. La sua identità è ancora avvolta nel mistero, nonostante siano impegnate nella ricerca della sua vera identità una squadra anticrimine e niente di meno che la Scotland Yard.
Le prime tracce della sua attività possiamo ritrovarle a Bristol, la città che probabilmente gli ha dato i natali. Se inizialmente i suoi lavori sono interamente eseguiti senza l’utilizzo di stencil, questi verranno invece usati dopo gli anni duemila, così da permettergli una maggiore velocità di esecuzione e riuscire a diminuire le possibilità di farsi scoprire dalle autorità o più semplicemente dai suoi seguaci.
Le opere di Banksy sono molto spesso a sfondo satirico e gli argomenti da lui trattati sono principalmente la cultura, l'etica e la politica. Affrontare tali argomenti in chiave satirica è solo uno dei tratti peculiari dell’artista, che vuole mostrarci come l’uomo sia, oggigiorno, soggetto ad un’incessante omologazione e mercificazione. Se volessimo fare una citazione di carattere filosofico, non potremmo certo non riferirci a Zygmunt Bauman: viviamo in una società liquida, dove le relazioni tra le persone si scompongono e ricompongono in un modo del tutto rapido e casuale, generando incertezza e volatilità.
I protagonisti dei suoi lavori sono i soggetti più disparati: talvolta possono essere frasi
emblematiche e celeberrime rielaborate in chiave moderna. Un semplice esempio è l’epigramma “Che mangino crack”, oggi conservato presso Soho, realizzato nel 2008 dopo il tracollo della borsa di Wall Street, che lasciò senza lavoro oltre due milioni e mezzo di americani. La citazione è chiaramente una parodia della famosissima frase pronunciata da Maria Antonietta alla comunicazione da parte dei suoi servi: “Il popolo ha fame”. I soggetti principali degli elaborati dell’artista sono: politici, membri della famiglia reale, bambini, poliziotti, scimmie, gatti e i suoi ormai famosissimi “rats”, ovvero i topi. Questi ultimi, in particolare, servono per denunciare la società moderna e le amenità commesse dai più influenti membri delle nostre comunità. A tal proposito, nel suo libro “Wall and Piece”, Banksy scrive che “Se sei sporco, insignificante e non amato, allora i ratti sono il modello supremo”; viene così a crearsi un paradosso: è l’uomo che deve criticare i ratti o sono i ratti che devono criticare l’uomo?
L’arte di Banksy si materializza nella dimensione urbana e stradale, originando pezzi che vogliono mostrare la condizione di povertà culturale dell’uomo. Guerre, inquinamento, maltrattamento minorile, violenza sulle donne, omologazione, manipolazione mediatica e occidentalizzazione: queste sono solo alcune delle tematiche atroci trattate, trasposte in opere brillanti e piacevoli (anche se ciò di cui si parla non lo è per niente: qui sta tutta la genialità dell’artista), in grado di generare riflessioni istantanee nello spettatore. Lo street artist gioca con le contraddizioni impreviste e imprevedibili, rendendo palese la sua ironia e caricando l’opera di forti significati artistici e, talvolta, allegorici.
Chiodo fisso dell’anti-artista (Banksy viene così definito dalla critica moderna) è la lotta alla privatizzazione delle opere d’arte: queste vengono realizzate perché il grande pubblico possa trarne insegnamento ed è per tale motivo che i suoi elaborati prendono vita nelle metropolitane o nei muri delle grandi città. La privatizzazione delle sue opere comporterebbe la rimozione dei suoi murales dalle strade e la conseguente musealizzazione di questi. Non solo quando si parla di arte di strada, ma in generale, ogni prodotto artistico nasce in un determinato contesto: rimuoverlo da questo, automaticamente, denaturalizzerebbe l’opera stessa, andando a privarla, magari, di una porzione importante del suo significato.
“Going, going, gone.”. Questa è la frase che si legge sotto il post di Instagram risalente al sei ottobre 2018, ma perché è così importante? Il motivo è semplice: è la descrizione della foto dell’evento artistico emblema del 2018, l’autodistruzione dell’opera “Ragazza con palloncino”. Proprio così, autodistruzione. Durante un’asta organizzata da una delle case più importanti di Londra, la Sotheby’s, un acquirente anonimo si era aggiudicato l’opera “Ragazza con palloncino” per il valore di 1,4 milioni di sterline, tasse comprese. Non appena però la vendita viene confermata, accade l’impensabile: improvvisamente suona una sirena e l’opera si riduce in striscioline grazie a un tritacarte nascosto all’interno della cornice e attivato, con una certa probabilità, dallo stesso artista (l’opera, come ci saremmo potuti aspettare, ha così, ovviamente, accresciuto il suo valore).
Banksy commenta l’evento con una celebre frase di Picasso: “L’urgenza di distruggere è essa stessa urgenza creativa”. Questo gesto rivoluzionario e critico è una pesante accusa contro la mercificazione dell’arte, vuole provocare il sistema di musealizzazione fuori controllo: una moda che lentamente sta precludendo a molte persone la possibilità di ammirare opere meravigliose.
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