All’interno dell’ambito dell’istruzione, si nascondono alcune lacune, leggibili dallo studio di dati, che risultano essere discordanti con quelli europei. In particolare, i risultati delle indagini statistiche permettono di delineare il quadro formativo italiano e di interrogarsi, in questo caso, sulle cause dietro al basso numero di laureate e laureati nel nostro paese.
Ovunque è Italia mania. L’entusiasmo liberato dai successi commoventi che il Bel paese ha conquistato la scorsa pazza estate ha travolto, toccato e stravolto gran parte degli italiani: dal successo dei Maneskin all’Eurovision Song Contest, seguito dai record su Spotify, agli allori azzurri alle Olimpiadi e Paralimpiadi di Tokyo, passando per la cavalcata trionfale degli uomini di Mancini e per le gioie del tennis, attraversando il memorabile trionfo della pallavolo femminile, replicato poi da quella maschile, agli europei. Per non dimenticare il Golden Globe di Laura Pausini grazie alla sua Io sì/seen, colonna sonora del film Netflix La vita davanti a sé, e il successo internazionale Luca, film d’animazione Disney e Pixar ambientato a Portorosso, nelle Cinque Terre. Quindi il Premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi e il Morning Fog di Giulio Montini, fotografo premiato per lo scatto dell’anno sui fenomeni meteorologici. Sicuramente starò corrivamente dimenticando qualcosa (e sono costretto a farlo per non risultare troppo prolisso). Riscatto, rabbia e rivincita: tre R, un mantra. Record su record (adesso sono quattro le R). Un’onda azzurra travolgente, che ha fatto sì che il mondo tornasse a parlare dell’Italia con parole al miele (sempre, però, con qualche ape di turno a dar fastidio, a lamentarsi gelosa e incredula per le imprese tricolori). Ergo, riassumendo in poche parole, possiamo affermare che finora il 2021 è il nostro anno nello sport, nell’arte e nella cultura.
Purtroppo non tutto è rose e fiori... e ci mancherebbe, sarebbe un’utopia se lo fosse. Ma se in questi tre ambiti l’Italia si sta giustamente crogiolando e godendo i successi, non può sedersi sugli allori per quanto concerne settori più istituzionali e comunicativi tra i quali, assieme al sopracitato sport, vi è uno dei principali veicoli di integrazione sociale: l’istruzione. All’interno della complessa macchina formativa, si nascondo lacune che emergono dallo studio di alcuni dati, in netta discordanza con l’andamento generale europeo, non tanto per la qualità degli insegnamenti offerti (la preparazione dello studente italiano diligente non ha niente da invidiare a quella dei coetanei stranieri), quanto per il numero di persone aventi un titolo di istruzione. Soffermiamoci in particolare sulla realtà universitaria, facendo riferimento alla sua struttura, sempre più direzionata sulla formula 3+2 rispetto al modello a ciclo unico.
Laureate e laureati
La cosiddetta triennale è ormai in regime da venti anni, dopo essere partita in via sperimentale nella stagione accademica 2000-2001 ed entrata a tutti gli effetti in vigore l’anno successivo. La laurea breve, ricordiamolo, è stata introdotta nel sistema universitario per agevolare l’inserimento degli studenti nel mondo lavorativo, oltre che abbassare l’età media di laureati italiani (più alta rispetto al resto d’Europa) e incrementare l’esigua percentuale di dottoresse e dottori. Tuttavia questo impianto di istruzione, che ormai dovrebbe essere rodato, non sembra aver portato i suoi frutti. Infatti circa il 60% degli studenti, che hanno conseguito la laurea triennale, prosegue gli studi, il che significa che l’introduzione della laurea breve non ha risolto nel panorama nostrano la difficoltà di entrata nella sfera del lavoro.
Inoltre, riportando i risultati dell’indagine statistica effettuata da ISTAT, relativa al 2020, pubblicata lo scorso 8 ottobre, si annota che solo il 20% della popolazione fra i 25 e i 64 anni ha una laurea contro il 32,8% della media europea.
Aprendo una piccola parentesi, se si considera il totale di diplomati, nel 2020 la quota in Italia ha toccato il 63%, percentuale nettamente inferiore rispetto alla media internazionale, per la quale i diplomati sono il 79%. La quota di possedenti di almeno un titolo di studio secondario è l’indicatore più significativo del livello di istruzione di un paese, essendo il diploma il livello di formazione indispensabile per una partecipazione al mercato del lavoro con una potenziale crescita individuale.
Ma, tornando ai laureati, quali sono le cause del loro scarso numero?
Sicuramente la prima risposta che viene in mente è legata alle tasse universitarie: stando al rapporto OCSE Education at Glance (lavoro annuale che esamina il settore dell’istruzione fornendo informazioni sulla formazione scolastica e universitaria nei paesi appartenenti all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) l’università italiana si colloca a metà strada nella classifica degli “Atenei” più costosi nel mondo, con una media della retta annuale inferiore ai 2 mila euro l’anno, simile a quella di Olanda e Spagna. La Penisola, in Europa, è però terza, dietro solamente a Regno Unito (che ha una media di 12 mila dollari l’anno) e a Norvegia. Infatti sono addirittura gratuiti gli accessi alle Università in Danimarca, Finlandia, Grecia, Scozia e Svezia. In altri casi sono richiesti esclusivamente “pagamenti simbolici”, come in Germania e in Francia, dove l’ordine delle tasse annuali è di poche centinaia d’euro. La situazione è frutto in gran parte dell’ingente crescita delle tasse universitarie in Italia, aumentate ben del 60% nell’ultimo decennio.
La seconda risposta al problema riguarda la mancanza di opportunità di lavoro. I giovani laureati hanno difficoltà a trovare una occupazione e le retribuzione sono basse. Oggigiorno un neolaureato del Politecnico di Milano, tra gli atenei più di spessore in Italia, guadagna meno di un neo ingegnere cinese. Nel delicato equilibrio tra domanda e offerta, né i nostri studenti né quelli stranieri residenti nel nostro paese riescono a trovare una carriera professionale gratificante in linea con i propri profili. Secondo la società di consulenza americana Mercer i laureati italiani sono tra quelli meno pagati in Europa insieme a polacchi e spagnoli. Per di più nel Bel Paese un laureato fra i 25 e i 34 anni percepisce una busta paga solo del 19% più consistente rispetto ai coetanei non laureati. Nell’area OCSE la differenza è invece del 38%. La cosiddetta “fuga di cervelli” pare quindi inevitabile.
Infine, ultimo fattore è il numero di defezioni scolastiche: il fenomeno dell’abbandono degli studi è osservato tramite la quota di popolazione che, nella fascia di età 18-24 anni e in possesso al massimo di un titolo secondario inferiore, esce dal sistema di istruzione e formazione. Nel 2020 in Italia la percentuale si è attestata sul 13% circa, superiore al 10% di media dell’UE.
Analizzando invece direttamente cosa avviene nelle università, sul nostro territorio non sembra mancare la volontà di un miglioramento delle proprie competenze attraverso un percorso accademico, dato che il numero degli iscritti complessivo è in aumento.
Di contro, l’entusiasmo iniziale che porta all’immatricolazione non sembra tradursi in risultati tangibili, poiché in crescita la rinuncia agli studi. Secondo le rilevazioni della Corte dei Conti, uno dei motivi si insinua già nel primo anno, quando gli studenti faticano a conseguire il numero di crediti formativi previsto. Nell’anno accademico 2019/20, infatti, sono stati raggiunti in media la metà o poco più dei CFU.
Le differenze applicate sul nostro territorio
Relativo all’abbandono degli studi prima del completamento della formazione secondaria o professionale, nel Mezzogiorno la quota supera il 16%, mentre Nord e Centro registrano circa l’11% .
In generale la popolazione residente al Sud ha una percentuale di istruzione inferiore al Centro-Nord: il 38,5% è diplomata e il 16,2% laureata, mentre nel settentrione il 45% è diplomato e una persona su cinque laureata.
Passando alla crescita dei livelli di istruzione nei due sessi, le donne con almeno il diploma sono il 65,1% e gli uomini il 60,5%. Una differenza più alta di quella osservata nella media Ue, pari a circa un punto percentuale. Le donne laureate sono il 23,0% e gli uomini il 17,2%. Tuttavia il vantaggio femminile non si traduce in analogo vantaggio in contesto lavorativo.
Quali le possibili soluzioni per incrementare il tasso dei laureati?
La prima potrebbe risiedere nell’attivare corsi in materie che assicurano lavoro, oltre che per renderne possibile la frequenza e il raggiungimento del titolo di studio. Ad esempio, andrebbero avvalorati strumenti per promuovere il conseguimento della laurea e l’iscrizione ai cicli successivi (analizzando strategie nuove per corroborare le attività di orientamento e di tutoraggio tra le matricole). In più, oltre a promuovere la scelta di percorsi di studio, soprattutto nelle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) andrebbero fortificate le connessioni tra Atenei e Ordini professionali, in modo tale da tentare di far combaciare le competenze alle richieste del mercato, scongiurando le fughe di cervelli, assicurando alla Penisola un maggior numero di talenti, ai quali garantire un’occupazione e una remunerazione allineata agli sforzi formativi profusi. In altre parole, attivare percorsi di stage e tirocinio più approfonditi in determinate facoltà e avviare attività di didattica innovativa tramite il coinvolgimento, a diversi livelli e con differenti modalità, degli stessi Ordini e dei singoli Professionisti.
Altra soluzione rientra nell’ambito delle borse di studio. Nonostante negli ultimi anni i finanziamenti siano aumentati, l’Italia è una delle nazioni che offre meno sussidi agli studenti. Solo il 14% ottiene una borsa di studio, assegnata tenendo conto principalmente della condizione economica e solo in seguito dei meriti accademici. Negli ultimi 3 anni sono stati mediamente 7 mila gli studenti esclusi pur avendone diritto, per assenza di fondi.
Aumentare le borse di studio potrebbe dunque essere un supporto e un incentivo importante nella formazione terziaria (e la questione è già da tempo argomento di dibattito soprattutto nel settore di medicina generale).
Basta perdere tempo perché, secondo il Rapporto AlmaLaurea 2021, il 45,8% dei laureati nel 2020 è pronto a trasferirsi per lavoro all’estero.
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