Chiusura. No, non ci stiamo riferendo alla parola contenuta nella sezione della lettera C dei dizionari, ma stiamo parlando di chiusura vera e propria. Quella di cui, solo alla sua nomina, abbiamo paura. Paura che possa essere radicale come l’ultima volta.
Perché si, con l’ultimo DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, anche se ormai sembra quasi inutile doverlo specificare) emanato da Giuseppe Conte in data 24 ottobre 2020, molte categorie già in difficoltà a causa della quarantena passata, hanno ricevuto il colpo finale (o quasi). Tra queste categorie, i lavoratori dell’ambito dello spettacolo (cinema, teatro e affini) si sono trovati costretti ad abbandonare nuovamente le loro attività, lasciando così non solo il loro lavoro (e conseguentemente non riscuotendo più le entrate derivanti da esso), ma anche la loro passione. Ciò che in molti, oltre ai lavoratori stessi, si stanno chiedendo in questo momento è: tutto ciò è davvero necessario?
Lo stop, attivo dal 26 ottobre al 24 novembre, comprende la chiusura di qualsiasi tipologia di spettacolo, a partire dai teatri e continuando con i concerti, le sale cinematografiche e qualsiasi attività praticata in altri spazi (compresi quelli all’aperto).
Tanti si sono mostrati contrari a questa nuova scelta del Presidente del Consiglio, in particolar modo coloro che appartengono al mondo della cultura stesso: tra i noti volti italiani troviamo gli attori Pierfrancesco Favino e Stefano Accorsi, due dei volti portanti del nuovo movimento social che ha preso vita su Instagram dall’Unita (Unione nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo). Movimento che agisce attraverso la pubblicazione di post o storie (presenti solo per ventiquattro ore, ma sempre di forte impatto tra i giovani) in cui viene mostrato il dissenso da parte di coloro che pubblicano o attraverso un’unica frase, comunque in grado di colpire dritta nel segno, come quella pubblicata da Favino “questa storia non è più disponibile”, oppure tramite un vero e proprio post indirizzato al ministro dei Beni Culturali Franceschini, al Presidente Consiglio Conte ed al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, all'interno del quale viene sottolineata l'importanza del lavoro in ambito culturale e in cui vengono poste richieste relative ad un possibile punto d'incontro.
A loro si è unito il trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo, che in un breve e coinciso post su Facebook ha dichiarato la sua tristezza riguardo la chiusura, soffermandosi però su un punto ben specifico, espresso in poche e semplici parole alla fine del loro scritto: citando le loro parole: “Teatri e cinema sono luoghi sicuri. O almeno più sicuri di molti altri luoghi di contatto che non vengono altrettanto penalizzati”.
Ed è questo il vero e proprio nocciolo della questione.
Non appena il nuovo DPCM è entrato in vigore, il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, ha dichiarato, sempre attraverso l’utilizzo dei social, quanto questo stop sia doloroso ma anche “prima la salute”, sottolineando però quanto il mondo della cultura sia in forte sofferenza ormai da mesi. Nessuna parola relativa ad una possibile soluzione. Soltanto chiusura.
Ciò potrebbe apparire strano ai più, infatti, proprio perché i cinema, così come i teatri (i cui spettacoli sono però fatti da persone che devono stare a contatto tra loro, quindi più comprensibile) erano alcune delle poche attività in cui le disposizioni di sicurezza attuate permettevano un sicuro ed agevole sfruttamento dello spazio.
Il “sistema di protezione” scelto era costituito dall’alternanza di un posto tra uno sconosciuto e l’altro, mentre i nuclei familiari o gruppi di amici (nelle grandi catene) potevano sedersi vicini, continuando a mantenere la mascherina durante tutto il corso dello spettacolo o della proiezione. Nonostante tutte queste precauzioni, compresa la consegna del numero di telefono prima di entrare in sala, e la diminuzione del costo del biglietto seguita dall’introduzione di offerte particolari, il cinema ed il teatro hanno visto un drastico calo di vendite già a partire dalla loro prima riapertura. Calo di vendite che ha comportato una drastica diminuzione anche dei posti di lavoro: infatti, nonostante il personale all’interno di strutture di questo genere continui a sembrare eccessivo per il poco pubblico rimasto, esso è in realtà costituito da meno della metà di quello precedente, proprio a causa della scarsa riuscita di vendita dei servizi.
La vera questione rimane quindi una: in base a cosa è stato deciso quali attività sospendere? Ma soprattutto, perché determinate attività sportive, in cui il contatto è sicuramente previsto (anche se non volontario) continuano ad andare avanti (nonostante i numerosi casi rilevati) mentre altre attività, come quelle sopracitate, in cui le misure di sicurezza non sono mai mancate ed i casi riscontrati risultano inferiori alla decina, sono destinate a chiudere?
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