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Czeslaw Milosz «Campo dei Fiori»


Ultimamente mi sono (ri)imbattuta per caso in una poesia, ovvero “campo dei fiori”. A parer mio si tratta, paradossalmente, di una poesia di una delicatezza particolare. Il poeta Miłlosz, voce essenziale per la sua epoca, ci dona una cronaca, una testimonianza che si mescola con la poesia.

Durante gli anni quaranta Miłlosz vive in prima persona l’asprezza della guerra, in questa poesia in particolare si può notare un riferimento alla repressione del ghetto di Varsavia dell’aprile del 1943.

Si cerca di accostare la rivolta del ghetto di Varsavia con la condanna al rogo di Giordano Bruno: due realtà che si trovavano in due poli opposti, geograficamente e culturalmente.

Allora cos’è che li accomuna? La libertà di pensiero, la diversità.

Gli ebrei infondo sono stati puniti per essere diversi, non potendoesprimere i loro sentimenti, la loro paura. Sono stati condannati per essere umani, e con loro è stata condannata la loro cultura, i loro ideali.

Giordano Bruno è stato messo al rogo perché ha difeso le sue teorie, ciò per cui ha studiato, ha lottato per una vita intera.

Ciò che il poeta vuole sottolineare è il momento prima e durante l’evento del rogo. Ovvero, come gli altri uomini vivono l’accaduto: ignorando. Credo sia anche questa una delle parole chiave della poesia: l’indifferenza. Mentre un uomo muore per le proprie idee, la gente comune continua a festeggiare la propria quotidianità, ignorando l’atrocità di cui qualcun altro è vittima.

Mentre un uomo brucia, si contrappone l’immagine della quotidianità della città: “a Roma in Campo dei Fiori, spruzzi di vino per terra e frammenti di fiori”.

Quest’episodio è accostato alle giostre di Varsavia, ad una chiara sera d’aprile, con il sottofondo di una musica allegra. Nel frattempo, il ghetto degli ebrei ardeva e le fiamme si levavano in cielo.

La gente, era così ignara che scambiava i frammenti delle case che volavano in cielo, inceneriti, per “neri aquiloni”.

“ La gente in corsa sulle giostre acchiappava i fiocchi nell’aria”.Fiocchi di ceneri di case, affetti personali, corpi. Fiocchi di persone che hanno pagato la crudeltà dell’uomo, la smania del potere.

In questa domenica di morte, il vento caldo che veniva dal fuoco sfiorava la gente: “alzava le gonne alle ragazze”, ma non scaldava gli animi. Non sensibilizzava i cuori.

Potrebbe sorgere il dubbio se quella gente non fosse al corrente di ciò che stava succedendo, ma il dubbio viene soffocato nelle righe successive, dove il poeta ci dice che anche se lo fosse, avrebbe comunque ignorato l’evento. Infatti, la memoria di gente che muore così appartiene ai poeti. Gli unici in grado di coglierne l’essenza prima di chiunque altro, di riconoscerne la grandezza e di renderla immortale tramite l’arte.

C’è chi rimarrà “indifferente ai roghi dei martiri”, chi invece “sulla fugacità delle cose umane” ne trarrà la morale. I più “sensibili”, quindi, ne resteranno colpiti per scopi personali, confermandosi che non bisogna andare contro ai potenti, non bisogna esporsi troppo.

Eppure lui si ferma a pensare alla “solitudine di chi muore”. A chi, cadendo nell’oblio, non trova comprensione da parte della sua patria, della sua gente. A chi si sente clandestino a casa sua, per colpa di altri uomini.

Mentre chi muore riflette su una morte basata sull’ingiustizia, sull’ignoranza, su un’umanità che non comprende che diverso non è sinonimo di sbagliato, che non sa reggere l’indipendenza di un’idea, d’altro canto ci sono gli altri che “tracannano vino”, di nuovo come se nulla fosse.

La speranza è dei poeti, che portano avanti la memoria di queste anime sole. Il peccato, però, sta negli uomini di oggi che non comprendono ciò di cui sono vittima.

Possiamo dire che con questa poesia, Miłlosz ci vuole sì testimoniare eventi storici, come il ghetto di Varsavia e il rogo di Bruno. Ci vuole testimoniare, però, quanto sia pericolosa l’indifferenza umana, quanto possa essere letale. È a causa di essa se persone di una certa valenza sono state emarginate o costrette a pubblicare altrove. A causa dell’indifferenza umana poeti e scrittori hanno dovuto abbandonare la propria casa, perché la cultura apre la mente e un popolo capace di pensare è pericoloso. I regimi dittatoriali avevano capito da subito quanto possa esser pericolosa un’idea. Le uniche a non capirlo sono state le persone comuni, che si sono fatte schiacciare, si sono fatte manipolare.

La festa è un evento che distoglie l’attenzione da ciò che invece è degno di sgomento. Credo che in questa poesia si possa percepire anche una modica quantità di rabbia verso il genere umano, ma anche amara consapevolezza di chi sa che purtroppo la storia si ripete all’infinito perché l’uomo non impara mai dai propri errori. Il ruolo del poeta è proprio quello di mantenere viva la memoria con la speranza di sensibilizzare i posteri, di trasmettere valori che solo tramite la poesia si possono immortalare. Infatti, colui che farà la rivolta sarà proprio un altro poeta. La speranza risiede in chi riesce a guardare un po’ più in là della folla che festeggia, accorgendosi del particolare. Si accorge degli innocenti che patiscono, li colgono e danno loro una voce.

Miłlosz distoglie lo sguardo dal grande, per porre la loro attenzione al piccolo. Dar voce a chi, all’interno della storia non conta molto, ma la cui testimonianza è essenziale, perché un’idea è sempre l’arma più pericolosa per poter cambiare le cose.

La consapevolezza è ciò che c’è di più eversivo al mondo.

A Roma in Campo dei Fiori

ceste di olive e limoni,

spruzzi di vino per terra

e frammenti di fiori.

Rosati frutti di mare

vengono sparsi sui banchi,

bracciate d’uva nera

sulle pesche vellutate.

Proprio qui, su questa piazza

fu arso Giordano Bruno.

Il boia accese la fiamma

fra la marmaglia curiosa.

E non appena spenta la fiamma,

ecco di nuovo piene le taverne.

Ceste di olive e limoni

sulle teste dei venditori.

Mi ricordai di Campo dei Fiori

a Varsavia presso la giostra,

una chiara sera d’aprile,

al suono d’una musica allegra.

Le salve del muro del ghetto

soffocava l’allegra melodia

e le coppie si levavano alte

nel cielo sereno.

Il vento dalle case in fiamme

portava neri aquiloni,

la gente in corsa sulle giostre

acchiappava i fiocchi nell’aria.

Gonfiava le gonne alle ragazze

quel vento dalle case in fiamme,

rideva allegra la folla

nella bella domenica di Varsavia.

C’è chi ne trarrà la morale

che il popolo di Varsavia o Roma

commercia, si diverte, ama

indifferente ai roghi dei martiri.

Altri ne trarrà la morale

sulla fugacità delle cose umane,

sull’oblio che cresce

prima che la fiamma si spenga.

Eppure io allora pensavo

alla solitudine di chi muore.

Al fatto che quando Giordano

salì sul patibolo

non trovò nella lingua umana

neppure un’espressione,

per dire addio all’umanità,

l’umanità che restava.

Rieccoli a tracannare vino,

a vendere bianche asterie,

ceste di olive e limoni

portavano con gaio brusio.

Ed egli già distava da loro

come fossero secoli,

essi attesero appena

il suo levarsi nel fuoco.

E questi, morenti, soli,

già dimenticati dal mondo,

la loro lingua ci è estranea

come lingua di antico pianeta.

Finché tutto sarà leggenda

e allora dopo molti anni

su un nuovo Campo dei Fiori

un poeta desterà la rivolta.

Varsavia – Pasqua, 1943

(Traduzione di Pietro Marchesani)

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