Dante ghibellino? Ma siamo sicuri?! O unn’era guelfo? Facciamo chiarezza, nei limiti del possibile. Vige ancora oggi un dibattito sulla fede politica di Dante, con varie prove che dimostrano la sua appartenenza allo schieramento guelfo e altre che sembrano dire il contrario. La discussione è, appunto, ancora aperta e di certo non sarò io a dirimerla, posso però cercare di tracciare un quadro generale.
Andiamo con ordine; è piuttosto noto che l’Italia al tempo di Dante era spaccata in due schieramenti politici, quello guelfo filo-papale e quello ghibellino filo-imperiale, per dirla sbrigativamente. Il Basso Medioevo fu un’epoca di grande sperimentazione ed evoluzione politica, tuttavia era anche una società ben diversa dalla nostra: una società, tanto per dire, che non tollerava l’opposizione. Nella mentalità di un italiano del Due-Trecento l’avversario politico era automaticamente un nemico, pure se era il tuo vicino di casa. Ciò si traduceva nelle frequenti espulsioni dalla città: se il comune veniva conquistato dai guelfi allora era naturale che tutti i ghibellini fossero cacciati e costretti ad emigrare (diventavano i cosiddetti “fuoriusciti”) e viceversa. Questo era normale e chiaro a tutti: era uno dei rischi del mestiere di politico, in pratica.
Firenze in tutto questo poté fregiarsi di essere una città intrinsecamente guelfa. Nel corso del Duecento ci furono solo due brevi periodi in cui i ghibellini detennero il potere e i guelfi vennero cacciati (negli anni Quaranta e poi nella prima metà degli anni Sessanta). Dante dunque nacque e visse in una città fermamente guelfa, in cui i ghibellini erano additati come nemici da cui guardarsi… no, un momento, “nacque e visse” no, solo “visse”.
Dante infatti nacque a Firenze nel 1265, in uno dei due momenti in cui la città era ghibellina (lo rimase fino all’anno dopo, il 1266)… questo non deve però indurci a credere che la sua famiglia fosse in realtà ghibellina, ma solo che fosse una famiglia guelfa poco influente, troppo poco per costituire una minaccia per il regime vigente: essendo poco pericolosa, potrebbe anche non essere stata espulsa.
Dunque, Dante crebbe da buon guelfo e, man mano che cresceva, in città il regime guelfo attecchiva sempre di più: la minaccia che i ghibellini potessero rientrare era lontana. La città prosperò come baluardo guelfo e i suoi banchieri si misero direttamente in affari col papa. Proprio gli affari col papa misero in contrasto varie famiglie di banchieri fiorentini, ognuna delle quali voleva detenerne il monopolio; tali contrasti economici si sommarono a una lotta politica: lo sapete come funziona, a lungo andare i partiti si scindono in correnti, è sempre successo e succede anche oggi. Insomma si crearono due gruppi, i guelfi neri e i guelfi bianchi, più moderati e uniti attorno alla famiglia Cerchi. Dante stava coi bianchi e insieme a essi fu espulso da Firenze nel gennaio del 1302, quando i neri, con l’appoggio di papa Bonifacio VIII, presero il potere (piccola curiosità, tra i fuoriusciti ci fu pure il padre di Petrarca).
Bisogna capire che spesso all’epoca le ideologie di partito (o per meglio dire “di parte”) venivano accantonate per motivi economici o di convenienza… ok, forse non succedeva solo all’epoca, ma non scendiamo nella politica, che va a finire male. In buona sostanza, quando i guelfi bianchi uscirono da Firenze chi ti trovano lì fuori? Ma i ghibellini, ovviamente! Quando si trovarono faccia a faccia iniziarono a parlare: “che ne direste di mettere su un esercito insieme?”, “perché non facciamo una guerra civile?”… insomma quelle cose che si dicono sempre fra amici dopo un po’ che non ci si vede. Dopo di che, “e patapim e patapam” per citare Aldo, Giovanni e Giacomo: la strana alleanza iniziò una serie di scorrerie, rapimenti e tumulti. Fra i capi della coalizione vi erano molti ghibellini (tra cui il figlio di Farinata degli Uberti), i Cerchi e Dante.
L’alleanza non fu però in grado di riconquistare Firenze e si sfaldò; Dante, ormai disperando di poter rientrare in città con la forza, perse fiducia nei compagni e li abbandonò, decidendo di “fare parte per sé”.
Negli anni successivi, com’è ben noto, Dante vagò per tutta Italia, allargando i suoi orizzonti mentali rispetto a quando pensava solo a Firenze. Ritrovatosi ora ad abbracciare con lo sguardo tutta la penisola, si rese conto di quanto essa fosse frammentata e maturò una idea politica nuova (espressa nel De Monarchia): che l’unico in grado di tenere unita l’Italia fosse l’imperatore. Un’idea che certo di guelfo ha poco, ma va detto che negli stessi anni in cui Dante arrivò a pensarlo stava scendendo in Italia l’imperatore Enrico VII il quale, evento raro, sembra che fosse in buoni rapporti col papa, dunque sarebbe stato una figura "legittimata" anche agli occhi dei guelfi.
Del resto la parabola di Enrico VII fu breve; egli non riuscì a unire l’Italia e probabilmente in Dante sparì la velleità ghibellina. Ciò è confermato del resto anche dalla Commedia dove, nel decimo canto, il Sommo Poeta incontra il celebre ghibellino Farinata degli Uberti. Se ricordate il passo, i due, pur mostrando stima reciproca, non sono propriamente amichevoli: Dante deride l’avversario dicendo che i guelfi, le due volte che erano stati cacciati da Firenze, riuscirono a tornare, mentre “i vostri non appreser ben quell’arte”. Una dichiarazione di guelfismo che probabilmente vale più di quella fama di “ghibellin fuggiasco” che è rimasta cucita addosso a Dante, dopo che così lo ebbe definito Ugo Foscolo: una definizione che dopotutto potrebbe anche essere solo una licenza poetica.
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