Il falò delle vanità, prima di diventare il titolo di un romanzo di Tom Wolfe e del film che ne è stato tratto, fu un evento storico, avvenuto a Firenze il 7 febbraio 1497, nel periodo in cui la città era controllata da Girolamo Savonarola e dai suoi seguaci (la cosiddetta fazione dei “Frateschi” o “Piagnoni”). Ma andiamo con ordine.
Savonarola, frate domenicano nato a Ferrara nel 1452, si era già fatto un nome come predicatore quando fu chiamato a Firenze da Lorenzo de’ Medici nel 1490. Giunse dunque in città preceduto dalla fama dei suoi discorsi infervorati contro la corruzione della Chiesa e in difesa dei poveri e dei giusti. Oltre a questo, aveva ed ebbe sempre modi da profeta: una volta in città cominciò quindi a tenere i suoi sermoni dal pulpito di San Marco e a profetizzare che delle terribili calamità si sarebbero abbattute sull’Italia e su Firenze. Provate a immaginare lo sbigottimento dei fiorentini quando, in questo clima di tensione e aspettativa, il 5 aprile 1492 un fulmine si abbatté sulla cupola del Duomo, danneggiandola, o quando, appena tre giorni dopo, Lorenzo il Magnifico morì.
Con le sue profezie, le sue prediche teatrali e il suo carisma, Savonarola conquistò i fiorentini, divenendo una figura nevralgica della città. Così, quando il re di Francia Carlo VIII di Valois scese in Italia alla testa di un esercito per conquistare il regno di Napoli, nel 1494, i fiorentini cacciarono Piero de’Medici (figlio di Lorenzo), che si era mostrato troppo remissivo nei confronti del re, e incaricarono proprio Savonarola di trattare la pace e salvare Firenze dal saccheggio dei francesi. Il predicatore riuscì nell’incarico (non senza un discreto esborso), guadagnandosi ancor più la devozione dei cittadini.
Amato dagli abitanti e galvanizzato dal suo successo, Savonarola prese le redini della repubblica fiorentina, intenzionato a farne uno stato modello per tutta la cristianità (“Firenze deve avere un ordine morale come si conviene ad una cristiana e religiosa repubblica”). In città si instaurò un regime penitenziale, con la chiusura di tutte le taverne, le persecuzioni contro gli omosessuali e il divieto di giocare d’azzardo. A far rispettare i ferrei dettami morali imposti dal frate furono i suoi più strenui seguaci, che si organizzarono in squadracce bande armate che aggredivano chi trasgrediva o anche solo chi aveva un aspetto a loro avviso troppo impudico (spesso e volentieri donne con troppi gioielli o con acconciature particolarmente raffinate).
L’apice della politica moralizzatrice del Savonarola fu raggiunto, come ho già detto, il 7 febbraio 1497, col cosiddetto falò delle vanità. Le vanità altro non erano che tutti gli oggetti ritenuti peccaminosi e immorali… se state pensando a qualche strano sex toy siete fuori strada (eh furbacchioni!). No, nell’ottica dei Piagnoni erano licenziosi oggetti molto più quotidiani: in Piazza della Signoria fu ammassata una catasta di gioielli, vestiti sfarzosi e profumi, ma pure, come racconta il Vasari, “tante pitture e sculture ignude molte di mano di Maestri eccellenti, e parimente libri, liuti e canzonieri”. Insomma, i roghi di libri non sono un’invenzione nazista.
A fare le spese di questo raptus moralistico furono pure moltissimi quadri di Botticelli a soggetto mitologico e pagano, bruciati dallo stesso pittore, un convinto assertore delle idee di Savonarola. La mole di “vanità” bruciate, dunque, fu immensa: si parla di una catasta più alta dei tetti delle case circostanti!
Si può dire che il falò fu il punto più alto della parabola del frate, che poi si avviò in una rapida discesa a causa dell’opposizione dei suoi avversari. Perché intendiamoci, l’adesione a queste idee non fu unanime per tutta Firenze; l’opposizione a Savonarola si concentrò principalmente in tre fazioni. La prima era quella degli Arrabbiati, alleati del papa che Savonarola criticava tanto; la seconda era quella dei Palleschi, sostenitori dei Medici che chiedevano il ritorno di Piero e l’ultima era la fazione dei Compagnacci, buontemponi che chiedevano solo di poter tornare a divertirsi come prima.
A essere soprattutto fatale al frate domenicano fu però l’ostilità di papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, il quale perfettamente riassumeva quella corruzione della Chiesa di cui Savonarola parlava: eletto solo perché comprò platealmente i voti dei cardinali, pressoché privo di fede, varò una politica nepotistica per consentire ai suoi numerosi figli e parenti di fare carriera nella curia. Questo bieco personaggio entrò presto in conflitto con Savonarola, a cui proibì di predicare. Visto poi che il frate non si attenne al divieto, lo scomunicò. Dato che neanche la scomunica riuscì a fermarlo, il papa ricorse all’artiglieria pesante: minacciò di lanciare l’interdetto su Firenze e (ben più grave) di confiscare i beni che i banchieri fiorentini avevano a Roma.
Di fronte a questa prospettiva, la città si rivoltò contro Savonarola e i pochi rimastigli fedeli; dopo un’aspra discussione che sfociò in sommossa, il frate si barricò in San Marco, che fu preso d’assalto dai rivoltosi fino a che egli non venne catturato.
Arrestato con l’accusa di eresia, fu torturato per giorni finché non “confessò” di aver ingannato tutti i fiorentini con prediche non vere, per mero tornaconto personale. Il 23 maggio 1498, in Piazza della Signoria, Savonarola e due confratelli rimastigli fedeli furono impiccati, i loro corpi furono bruciati e le ceneri vennero disperse in Arno, affinché nessuno potesse trafugarle per venerarle e del domenicano sparisse anche il ricordo.
Naturalmente il suo ricordo non è mai scomparso, perché, volenti o nolenti, dobbiamo riconoscere che Savonarola ha scritto una pagina breve ma intensa della storia fiorentina. Del resto, come scrisse anche il Guicciardini (cronista fiorentino del tempo), se pure non siamo d’accordo con le sue idee, resta il fatto che fu un uomo dotato di un intelletto estremamente lucido. A titolo di curiosità, una delle sue ultime profezie sosteneva che su Roma si sarebbe un giorno abbattuto il castigo di Dio, per la sua corruzione… non che egli abbia necessariamente previsto il futuro, ma nel 1527 i lanzichenecchi perpetrarono nell’Urbe uno dei saccheggi più gravi della sua storia.
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