L'ultimo atto è stato compiuto, dal primo gennaio del 2021 il Regno Unito si sarà definitivamente ritirato dall'UE.
L'uscita inglese è senza dubbio stata il colpo più duro mai inferto al progetto europeo, ha messo profondamente in crisi l'opinione pubblica anglosassone e continentale, travolte dal dibattito e dalla diffusione di notizie, informazioni, proclami ed obiettivi non sempre veritieri.
Quanto si può dire, a distanza di quasi quattro anni dal referendum consultivo che sancì l'inizio della Brexit, è che non ci sono né vincitori né vinti, idea che invece sembra serpeggiare nella parte più reazionaria del dibattito, almeno per quanto detto in Italia.
La causa dell'addio del Regno Unito non può essere fatto risalire però ad una momentanea decisione presa sull'onda dell'euroscetticismo del 2016, ha radici ben più profonde e lontane: il Regno Unito è, per tradizione politica e culturale, un paese profondamente isolazionista e fiero della propria diversità, atteggiamento i cui primi veri segni risalgono alla sconfitta subìta per mano della Francia nella guerra dei cento anni, conclusasi nel 1453 e culminato con il completo disinteresse delle vicende continentali nella seconda metà del diciannovesimo secolo nel periodo chiamato "splendido isolamento" e interrotto all'inizio del ventesimo secolo con l'alleanza con la Francia detta "entente cordiale" (intesa amichevole).
Un altro tradizionale elemento di distanza tra continentali ed inglesi è da sempre stato il sistema giuridico, che nei paesi del continente si organizza sul modello detto di civil law, basato sul diritto scritto, mentre nei paesi anglofoni si organizza sul modello di common law, imperniato sul diritto consuetudinario, motivo che ha reso, da sempre, molto difficile la convivenza del diritto inglese e del diritto europeo; gli elementi di distanza non finiscono certo qui, si va dalle unità di misura alla circolazione stradale, ma sono tutti elementi che permettono di comprendere, quanto, per tradizione e mentalità, quella inglese sia una società profondamente diversa da quella continentale.
Tra tutte le analisi compiute sui risultati del referendum del 2016 quella che colpisce maggiormente è la spaccatura generazionale che ha diviso anziani e giovani, con i primi che hanno preferito il leave e i secondi che hanno votato più spesso per il remain, un dato che appare molto importante in relazione soprattutto al contesto sociale ed economico che si svilupperà ora che l'addio è compiuto, ora che i brexiteers hanno ottenuto ciò che volevano, al prezzo di tre anni e mezzo di tensioni: l'aspetto generazionale del voto è stato sottovalutato, almeno qui in Italia (e la cosa certo non lascia sorpresi), senza che fossero fatte previsioni per il medio futuro, anche se in alcuni angoli remoti dell'opinione pubblica qualcuno ha ipotizzato che quegli elettori usciti sconfitti dalla tornata referendaria un giorno potrebbero aver di nuovo qualcosa da dire, ma qui si parla davvero di fantapolitica.
L'analisi di questo aspetto del voto permette anche di mettere a confronto due generazioni completamente diverse per cultura e mentalità, con la gioventù inglese che, almeno per quanto permettono di dire i dati, effettivamente si sentiva, e probabilmente tuttora si sente, maggiormente parte del sistema europeo, soprattutto per quelli che, come chi scrive, sono nati dopo il 1992, l'anno nel quale si decise di dare una decisa accelerazione al progetto con la trasformazione della Comunità Europea in Unione Europea: una generazione diversa da quella che l'ha preceduta, seriamente proiettata verso l'internazionalismo e sempre meno sicura di volersi racchiudere entro i patri confini, educata fin dalle scuole elementari alla conoscenza di una lingua straniera e proiettata, necessariamente, ad una dimensione sempre più internazionale del mondo del lavoro.
Per questo appare dolorosa la decisione del premier Johnson di ritirare l'UK dal programma Erasmus+, sottraendo a centinaia di migliaia di giovani la possibilità di recarsi all'estero per quello che non è solo un semplice soggiorno, ma rappresenta la migliore risposta, o per dirla con le parole del ministro dell'istruzione irlandese, il "miglior investimento", ad un mondo sempre più internazionale e connesso, dove la capacità di rapportarsi con persone di lingua e cultura diversa è ormai essenziale, ed è per questo che la decisione di Johnson sembra essere sostanzialmente priva di lungimiranza e della minima coscienza.
Il processo della Brexit pare aver raggiunto finalmente il suo epilogo definitivo, dopo un percorso lungo e incerto, ottenendo due risultati opposti: se da una parte ha portato al distacco definitivo del Regno Unito, che festeggia la propria ritrovata indipendenza e si compiace di essersi ripreso il proprio destino, come detto anche dal premier inglese, dall'altro, complice anche la pandemia e le sfide che questa ha costretto ad affrontare, ha permesso di capire quanto profonda sia in realtà l'integrazione europea e quanto sia ancora necessario impegnarsi per proteggere quell'obiettivo di pace e benessere che i fondatori avevano bene in mente.
"Ensemble nous sommes plus forts" recita uno dei motti dell'Unione Europea, "insieme siamo più forti", perché solo insieme si possono superare le sfide che ci attendono, dalla sconfitta definitiva della pandemia alla crisi climatica e quella migratoria, solo uniti riusciremo a vincere.
Con buona pace di chi, non riuscendo a vedere oltre il presente, preferisce piantare ancor più in profondità lo steccato che lo divide dal resto del mondo.
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