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Immagine del redattoreVittoria Giaganini

Fast Fashion: come uscirne.

Aggiornamento: 24 mar 2021



Il boom economico degli anni ‘60 ci ha insegnato che quando una buona parte della popolazione gode di diritti, educazione obbligatoria e ferie retribuite si può raggiungere un certo livello di benessere generale e condiviso, dato anche dalla possibilità di spendere e comprare, usufruire di beni e servizi non strettamente necessari alla sussistenza della vita. La Vespa e la TV sono stati alcuni dei primi beni di consumo della società di massa che ancora oggi, nel nostro immaginario collettivo, rappresentano per noi una sorta di epoca felice in cui la crisi economica era lontana e si poteva comprare, investire, si aveva la percezione di poter fare tutto.

Le conseguenze di quell’epoca felice le stiamo vivendo tutt’ora, sia in positivo che in negativo: se da un lato il cittadino medio occidentale gode di servizi e beni che fino a 75 anni fa erano preclusi alle grandi città o ad una minoranza ricca, dall’altro lato viviamo un consumismo sfrenato e passivo, intriso di disillusione per il futuro e disinteresse per ogni cosa che non riguardi l’estrema facilità con cui siamo abituati ad ottenere tutto oggi. Un click e ordiniamo a casa sushi, un refresh e controlliamo quanti soldi abbiamo nel conto in banca, un semplice spazio “ricerca” su Google e sentiamo ogni cosa a portata di mano.


E’ proprio così che si è diffuso il Fast Fashion: facilità di distribuzione e acquisto, bassa qualità a buon prezzo, innumerevoli linee e collezioni che si susseguono nel corso delle stagioni, come scaffali del supermercato riempiti costantemente (perché si sa: se gli scaffali sono mezzi vuoti al cliente non piace e sceglie un altro negozio). Novelty e Facility, per citare il filosofo ed estetologo Dorfles, non sono soltanto le due caratteristiche emblematiche di ogni prodotto del Kitsch, ma esse rappresentano anche la poetica dei beni di consumo usa e getta. E l’industria tessile ne è un importante esempio.


Concentrandosi sul lato ambientale sappiamo che:

  • durante la produzione e il lavaggio di vestiti ogni anno mezzo milione di tonnellate di fibre sintetiche viene disperso in mare, componendo così il 35% delle microplastiche responsabili dell’inquinamento marino;

  • l’industria della moda (non soltanto il Fast Fashion ma anche le grandi aziende di haute couture) produce il 10% delle emissioni globali di carbonio;

  • a livello globale, meno dell’1% dei rifiuti tessili viene riciclato e trasformato in nuovi indumenti.

Dunque, per quanto H&M ci assicuri che la linea Conscious sia sostenibile, sappiamo che non è abbastanza. Certo, meglio acquistare prodotti che presumibilmente sono composti in materiali riciclati piuttosto che merce a bassissimo costo da siti asiatici sconosciuti, ma rimane il problema delle fibre sintetiche: sarebbe sempre meglio scegliere vestiti formati al massimo da due materiali, preferibilmente non sintetici, come cotone, lana, seta, lino, pelle (quella vera, non la famosa “eco pelle” che è un derivato dal petrolio proprio come l’elastan o il poliestere).


Ma come si può fare la differenza? Si può davvero sfuggire al Fast Fashion? Avoglia!


In un recente servizio della pagina Will, l’imprenditore e docente del Milano Fashion Institute Matteo Ward ha spiegato che al giorno d’oggi per una compagnia mainstream e a basso prezzo come Zara è importantissimo parlare di tematiche ambientali o quanto meno far credere al consumatore di acquistare merce prodotta in modo responsabile: questo è il Greenwashing, una tecnica di marketing che nasconde il desiderio di profitti sempre più alti. Infatti come abbiamo detto queste aziende fanno leva sul consumismo sfrenato e sulla facilità di distribuzione e di vendita dei prodotti per spingere il cliente ad acquistare sempre di più, e poi, ad ogni nuova stagione, a ricominciare da capo, in un circolo di usa e getta infinito. E dov'è la sostenibilità in tutto ciò?


Eppure ci sono via d’uscita, ve lo assicuriamo:

  • acquistare meno (non significa semplicemente spendere di meno ma proprio evitare di comprare merce di cui non si ha veramente bisogno);

  • comprare vestiti usati o di seconda mano, presso eventi e temporary shops come Vinokilo, il famoso mercatino vintage di Firenze;

  • se si è interessati a prodotti di tendenza invece si possono visitare i siti di vari brand realmente sostenibili e responsabili, come Staiy e Renoon;

  • visitare il sito di Fashion Revolution Italia per verificare quale negozio attento a tematiche ambientali ed etiche sia più vicino a noi, grazie alla mappa degli indirizzi green (https://www.fashionrevolution.org/europe/italy/ ).




Fonti:

1. L'impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull'ambiente, Parlamento Europeo, 2020

2. Come smascherare un brand incoerente, Matteo Ward su Will , 2021



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