Negli ultimi tempi molto si dibatte in Italia su quanto sia appropriato contrastare quei termini stranieri, in particolar modo quelli di derivazione anglofona, che sempre più stanno diffondendosi nel comune parlare nostrano.
Tralasciando la qualità scadente di larga parte di queste discussioni, esiste una domanda fondamentale da porre: esistono guerre combattute tramite le lingue?
La risposta è affermativa, ed affonda le sue radici in tradizioni di pensiero e speculazioni intellettuali molto inveterate; ma a noi basta partire da Churchill e dalla Seconda guerra mondiale.
Se infatti molti sanno riconoscere in Churchill l'eroe di guerra che salvò l'Europa ed il mondo dal baratro nazista assieme agli Alleati, non molti ne conoscono la vena letteraria ed artistica.
Questo grande statista disponeva di una grande capacità oratoria e di una solidissima conoscenza della letteratura. Oltre a questo, le sue opere di carattere storico ed autobiografico gli valsero il premio Nobel per la Letteratura nel 1953.
Forte di questo portato, egli ebbe un'intuizione di carattere linguistico che si sarebbe rivelata decisiva nel lungo periodo.
Trattasi di un'intuizione silente, ossia di un qualcosa che non è stato largamente compreso dalla moltitudine; pur essendo sotto gli occhi di tutti.
Egli radunò un gruppo di ricerca composto da eminenti linguisti, il quale ragionò sulla possibilità di creare una lingua ipersemplificata nonché facilmente utilizzabile dai più.
Tra i ragionamenti e le ricerche che vennero effettuate era compreso il cosiddetto Basic English, ovvero una versione dell'inglese ridotta a circa ottocentocinquanta parole. Questa lingua è l'inglese parlato a livello internazionale, in quanto mediamente una persona che impiega tale idioma in questo contesto limita il proprio vocabolario al ristretto numero di parole ivi menzionato.
La prima cosa che si evince è che minore è il vocabolario, minore risulterà di conseguenza la ricchezza e la completezza del discorso.
Quindi un vocabolario ridotto limita la comunicazione e danneggia l'efficacia dello scambio dei messaggi così come delle informazioni.
Sul piano strategico questo ci porta a intuire la natura gerarchicamente superiore della lingua inglese come lingua internazionale riconosciuta. Per ciò che concerne il livello geopolitico del nostro ragionamento, si tratta di un'accettazione implicita della superiorità linguistica, financo culturale, dell'area anglosassone nello scenario internazionale.
Significa che dobbiamo rivalutare innanzitutto la rilevanza della cultura nei conflitti e, più in generale, nelle interazioni. Conseguentemente occorre capire che una lingua, se sfruttata e manipolata con certi metodi, può essere un'arma di guerra.
Se la lingua è un'arma, di conseguenza bisognerà poi ammettere la presenza di un obiettivo di fondo; che nel nostro caso corrisponde all'influenza e alla supremazia indiretta nei mezzi di scambio delle informazioni nonché nei modelli culturali impliciti che seguiamo come comunità sociali.
Esistono due grandi categorie di sistema logico linguistico, cioè quello subordinativo e quello coordinativo.
La logica di matrice subordinativa è tipicamente occidentale, mentre quella coordinativa appartiene al mondo orientale. In questa dialettica a due elementi, la lingua inglese assume un posizionamento mediano che le consente di mutuare una grossa presenza di fattori coordinativi con elementi subordinativi; rendendo la sua intellezione molto più semplice rispetto a quanto avviene solitamente per le altre lingue occidentali.
Lo sforzo che qui va fatto è quello di capire che si sta discutendo di un fattore fondamentale, poiché si sta tentando di comprendere quelli che sono gli schemi fondanti del nostro modo di pensare e di articolare comunicativamente l'atto del pensare in sede conseguente.
Il riuscire a comprendere questi meccanismi consente poi di maneggiarli, ed è quello che è accaduto e che tuttora sta accadendo con l'inglese.
Scendiamo di un gradino nella scelta dell'unità di analisi, passando da un focus incentrato sulla lingua complessiva ad una considerazione delle singole parole.
Secondo alcuni linguisti, la parola può essere analizzata e interpretata in maniere molto diverse e particolari; sicuramente accertandone la valenza specifica e non casuale all'interno del discorso.
Addirittura possiamo arrivare ad una connotazione quasi sacrale e mistica del vocabolo; che, seguendo il pensiero di alcuni poeti simbolisti francesi e di Ungaretti, porta con sé un segreto e degli effetti non immediatamente individuabili.
Il discorso può sembrare astratto, ma in realtà si tratta di un concetto molto semplice.
Una parola possiede un'etimologia, e oltre a questo la sua presenza non è mai un caso all'interno di un discorso o di un dialogo indipendentemente dalla consapevolezza di chi la sceglie.
Ci sono dottori di ricerca che hanno impostato tutto il loro lavoro su singoli vocaboli al fine di scoprirne tutte le possibili potenzialità.
Più in generale, e più nel concreto, quello che ci interessa sottolineare è che, nei discorsi politici e pubblici, tutte le parole, e quindi tutte le strutture sintattiche, vengono scelte per un motivo; anche quelle che paiono più banali.
Se durante una conferenza stampa un capo di governo sceglie di parlare in prima persona e con toni informali piuttosto che in terza persona e in maniera maggiormente distaccata la differenza non è sottile né scontata.
Basta un pronome, una parola appunto.
Volendo riassumere e trarre qualche conclusione, dobbiamo asserire che è corretto preoccuparsi per la nostra lingua. Di certo è pacifico che chi critica le interferenze anglofone e preferisce "made in Italy" a "sviluppo economico" non è credibile e non fa che alimentare polemiche sterili.
Il punto è un altro: una lingua è espressione della propria cultura di riferimento, dunque si relaziona con una grande mole di informazioni caratterizzanti.
Compromettere o manipolare un idioma appare quindi un esercizio subdolo, molto più sinistro e minaccioso di quanto non si pensi.
È uno spingersi oltre la naturale contaminazione fra lingue. E se non si riuscirà a capire questa fenomenologia, abbandonandosi alle solite contrapposizioni spagnolesche, non potremo che subire conseguenze nefaste sul piano culturale.
Anche perché, come disse un grande filosofo spesso citato ma poco studiato, gli uomini sono animali politici; e per esserlo necessitano di essere anche animali parlanti. Pertanto l'interrogativo di fondo che lascio al lettore, scusandomi per lo scritto un po' intricato, è questo: come e con quale lingua parleremo domani?
Leonardo Lucchesi
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