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La storia del cinema in pillole: anni '50 "Hiroshima Mon Amour"



Hiroshima Mon Amour è un film-capolavoro del 1959 diretto da Alain Resnais, regista che prima di fare, come numerosi critici hanno affermato, la ‘rivoluzione del cinema’ proprio attraverso questa pellicola, aveva principalmente diretto documentari che il pubblico italiano, nella maggioranza, non conosce, quali Nuit e brouillard, o Les Statues meurent aussi, oppure Toute la memoire du monde. Proprio a partire da quest’ultimo titolo, è possibile dare una prima definizione di Hiroshima Mon Amour: è questo, infatti, un film sulla memoria, memoria legata a quel passato che non si può cancellare - soprattutto per il dolore, per la devastazione che ha causato - (e qui entra in campo la storia) e memoria legata a quell’amore raccontato attraverso la regia di Resnais e la sceneggiatura, oserei dire impeccabile, di Marguerite Duras. E già il titolo sintetizza i temi chiave della pellicola: Hiroshima, bombardata nel ‘45 assieme a Fukushima, è la città in cui ha luogo la relazione d’amore, inaspettata ma più che potente, paradossalmente e non a caso ‘esplosiva’, quasi ‘radioattiva’ dei due protagonisti, l’attrice francese Elle (Emmanuelle Riva) e l’architetto giapponese Lui (Eiji Okada).




E’ bene a questo punto soffermarsi forse sul termine ‘radioattivo’: come chi se ne intende di fisica ben saprà, per radioattiva si intende, in poche parole, quella situazione di instabilità che i nuclei possiedono prima di trasformarsi spontaneamente in altri, emettendo particelle. Ciò che è paradossale e allo stesso tempo logico, è che questi nuclei necessitano di minore energia per trovare più stabilità, secondo la legge di conservazione dell’energia e della quantità di moto. Lo stesso accade nelle relazioni, in questo caso nel rapporto fugace tra Elle e Lui. Quando l’energia che scorre, metaforicamente, tra due corpi o tra due anime - energia che potremmo tranquillamente chiamare amore - è troppo potente, si crea inevitabilmente una situazione di instabilità ed è proprio questo che accade in Hiroshima Mon Amour.


Elle è ‘reduce’ di un amore traumatico, avvenuto durante la guerra con un soldato tedesco, morto sotto i suoi occhi, nella cittadina francese di Nevers, mentre Lui è reduce proprio di quella devastazione che nei quindici minuti iniziali dell’opera viene mostrata, in tutta la sua brutale, inaccettabile crudezza, in stile documentaristico (tipico, come si è detto, di Resnais). Ma in questo caso il regista va oltre: ed è da qui, infatti, che si è iniziato a parlare per la prima volta di ‘cinema moderno’, di cinema ‘cubista’ (Eric Rohmer, Hiroshima, notre amour, “Cahiers du Cinéma”, n. 97, luglio 1959), in quanto si oltrepassa quella dimensione divulgativa e/o didattica e/o informativa per giungere alla dimensione commovente dell’arte e della poesia. Perché, sì, vi sono immagini reali della tragedia di Hiroshima, ma queste sono sono costantemente mischiate con una ricostruzione fittizia dell’accaduto tesa in realtà puramente alla costruzione del film (“Quattro volte al museo di Hiroshima. Fotografie, in mancanza d'altro. Spiegazioni, in mancanza d'altro”), ed entrambe hanno valore informativo; entrambe è come se urlassero “Questo è quanto è accaduto”, “Questa è storia”. Tuttavia proprio a queste si alternano immagini di una poeticità rara, quelle che ritraggono il dolce avvinghiarsi dei due corpi e, in sottofondo, una colonna sonora degna di nota (Delerue e Fusco) e il dialogo intermittente, struggente, dei due amanti.




Lui inizia, quasi sussurrando con: “Tu non hai visto nulla a Hiroshima. Nulla.” (“Tu n’as rien vu à Hiroshima. Rien.”). Perché chi non ha visto non può sapere. E poi il cubismo, già menzionato, della sequenza di immagini in bianco e nero alla “Guernica” che, ugualmente a come avviene nell’opera maestra di Picasso, suscitano dolore, sofferenza, angoscia, amara incredulità, senso di impotenza. Lo stesso nome della cittadina di provenienza di Elle, Nevers, è un’evidente allusione alla sua traduzione inglese (never = mai), che, è allo stesso tempo, un invito a riflettere su quanto è accaduto a Hiroshima (o a quanto è avvenuto in Europa con lo sterminio degli ebrei, ad esempio): questa parte della storia, questo piccolo frammento che inevitabilmente frammenta a sua volta la storia dell’uomo per infine mutarla per sempre (si potrebbe affermare che vi sia un ‘prima’ e un ‘dopo’ il rilascio della bomba atomica in Giappone); ebbene, questa parte della storia non deve mai essere dimenticata e, soprattutto, non deve mai, in futuro, ripetersi una volta ancora. Ed è toccante, a questo proposito, il finale del film, quando i due si chiamano - e forse Guadagnino a questo si è ispirato per Call me by your name (2017) - con il nome della ‘città dell’altro’: Elle chiama Lui Nevers e Lui chiama Elle Hiroshima. E’ questo passaggio il riconciliarsi, il comprendersi finalmente, dei due amanti: è un dire “La mia sofferenza è la tua” o “Ora che sai, la mia sofferenza non è più meritevole di nota della tua”. Ma sicuramente questi dialoghi fittizi introdotti da me, pura spettatrice di una pellicola che riflette un’epoca che io non ho vissuto, non hanno alcun valore. Preferisco quindi lasciare la parola a Marguerite Duras che è, oserei dire, più poetessa che sceneggiatrice o, meglio, poetessa e sceneggiatrice. Perché basta anche solo citare (e lo farò prima in lingua originale, poi nella sua traduzione inglese - a mio modesto parere comunque più che dignitosa - e infine nella traduzione italiana, che, sempre a mio modesto parere, non rende quanto le precedenti) uno dei monologhi più suggestivi di sempre:


“Je te rencontre.

Je me souviens de toi.

Cette ville était faite à la taille de l’amour.

Tu étais fait à la taille de mon corps même.

Qui es-tu ?

Tu me tues.

J’avais faim. Faim d’infidélités, d’adultères, de mensonges et de mourir.

Depuis toujours.

Je me doutais bien qu’un jour tu me tomberais dessus.

Je t’attendais dans une impatience sans borne, calme.

Dévore-moi. Déforme-moi à ton image afin qu’aucun autre, après toi, ne comprenne plus du tout le pourquoi de tant de désir.

Nous allons rester seuls, mon amour.

La nuit ne va pas finir.

Le jour ne se lèvera plus sur personne.

Jamais. Jamais plus. Enfin

Tu me tues.

Tu me fais du bien.

Nous pleurerons le jour défunt avec conscience et bonne volonté.

Nous aurons plus rien d’autre à faire que, plus rien que pleurer le jour défunt.

Du temps passera. Du temps seulement.

Et du temps va venir.

Du temps viendra. Où nous ne saurons plus nommer ce qui nous unira. Le nom ne s’en effacera peu à peu de notre mémoire.

Puis, il disparaîtra tout à fait.”


I meet you. I remember you. Who are you? You’re destroying me. You’re good for me. How could I know this city was tailor-made for love? How could I know you fit my body like a glove? I like you. How unlikely. I like you. How slow all of a sudden. How sweet. You cannot know. You’re destroying me. You’re good for me. You’re destroying me. You’re good for me. I have time. Please, devour me. Deform me to the point of ugliness. Why not you? Why not you in this city and in this night, so like other cities and other nights you can hardly tell the difference? I beg of you.


“Io t'incontro. Mi ricordo di te. Chi sei? Tu mi uccidi. Tu mi fai del bene. Come avrei potuto immaginare che questa città era fatta proprio per l'amore? Come avrei potuto immaginare che il tuo corpo era fatto proprio per il mio? Tu mi piaci. Che avvenimento. Tu mi piaci. Che lentezza improvvisa. Che dolcezza. Non puoi sapere. Tu mi uccidi. Tu mi fai del bene. Ho ancora tempo. Ti prego. Divorami. Deformami fino alla bruttezza. Perché non tu? Perché non tu in questa città e in questa notte tanto simile alle altre al punto da potersi sbagliare? Ti prego.”



Elle chiede a Lui di divorarla, di deformarla fino alla bruttezza, un po’ come la bomba atomica aveva divorato, deformato Hiroshima in quell’agosto del ‘45. Elle entra forse in uno di quei meccanismi masochistici in cui sentire che l’altro ci uccide, ci fa al contempo stare bene. “Tu me tues. Tu me fais du bien.”: amore e morte, passione e annientamento.

Ma queste contraddizioni interiori non sono che alcune delle numerose altre contraddizioni, o meglio dire, contrapposizioni, antitesi, contrasti che il film propone.


La più degna di attenzione è senza dubbio quella tra l’oblio e il ricordo, che dimostra quanto la pellicola sia non solo una testimonianza storica, non solo una poesia visuale e sonora (per questo motivo consiglio vivamente di guardare il film in lingua originale, perché altrimenti si perderebbe quella musicalità voluta del linguaggio), ma anche un chiaro omaggio alla ‘filosofia del tempo’ di Bergson. Tanto Bergson quanto Resnais considerano, infatti, il passato come un ‘antico presente’ ed è per questo che i flashback non bastano al regista, che decide di immergere gli eventi in un tempo non cronologico, non lineare. Allo stesso modo il filosofo novecentesco, prima di Resnais e per questo, molto probabilmente, sua fonte di ispirazione, distingue il cosiddetto ‘tempo della scienza’ dal ‘tempo della vita’, dove per il primo si può immaginare una linea continua (qui la linearità), mentre il secondo coincide con il concetto di durée (durata), che viene rappresentato con il gomitolo di lana - è come se, infatti, passato, presente e futuro fossero aggrovigliati. L’uomo diventa così, sempre secondo Bergson, incarnazione momentanea dell’eternità: è tanto lo slancio del passato, quanto la sostanza da cui deriva ciò che avverrà in futuro ed è dunque, metaforicamente, una goccia di quel fiume di cui egli stesso fa parte; fiume in cui, appunto, scorrono passato, presente e futuro. Inoltre, la memoria è per Bergson in gran parte oblio e, a tal proposito, è necessario accennare quanto viene elaborato in “Materia e memoria” (1896): se il ricordo è la materializzazione operata dalla nostra mente di un evento del passato (si parla di ‘ricordo-immagine’), la memoria pura è come una lastra fotografica su cui, in maniera inconscia, si imprime tutto ciò che accade sotto i nostri sensi. E’ dunque quest’ultima una sorta di stratificazione dei ricordi, o meglio, delle percezioni, che essendo momentanee, differiscono dalla memoria stessa, in quanto essa è qualcosa di duraturo (la durata reale in sé), sempre interamente presente e indipendente dalla coscienza che ognuno possiede.

Ebbene, come sintetizzano questi concetti, diciamolo pure, piuttosto complessi, Resnais e la Duras? Con questa frase, pronunciata da Elle:


“Dans quelques années, quand je t'aurai oublié, et que d'autres histoires comme celle-là, par la force encore de l'habitude, arriveront encore, je me souviendrai de toi comme de l'oubli de l'amour même. Je penserai à cette histoire comme à l'horreur de l'oubli.”

“Some years from now, when I have forgotten you and other romances like this one have recurred through sheer habit, I will remember you as a symbol of love's forgetfulness. This affair will remind me how horrible forgetting is.”

“Tra qualche anno, quando ti avrò dimenticato, e altre storie come questa, per forza dell'abitudine, succederanno ancora, ti ricorderò come l'oblio dell'amore stesso. Penserò a questa storia come all'orrore dell'oblio.”

Oppure, nello stesso monologo citato in precedenza, prima di parlare dell’inevitabile (così pare) rapporto tra eros e thanatos, Elle (voce di Resnais, voce di Marguerite Duras, voce di Bergson) così si esprime:


“Comme toi, j’ai essayé de lutter de toutes mes forces contre l’oubli, comme toi j’ai oublié… Comme toi j’ai désiré avoir l’inconsolable mémoire, une mémoire d’ombre, de pierre. J’ai lutté pour mon compte, de toutes mes forces, chaque jour, contre l’horreur de ne plus comprendre du tout le pourquoi de ce souvenir. Comme toi, j’ai oublié. Pourquoi nier l’évidente nécessité de la mémoire ?”


“Like you, I wanted an inconsolable memory. A memory of shadow and stone. Each day I fought, all alone, with all my might, against the terror of no longer knowing the reason to remember. Like you have forgotten. Why deny the obvious necessity of remembering?”


“Anch'io, come te, ho provato a lottare con tutte le mie forze contro l'oblio. Come te, ho dimenticato. Come te, ho desiderato avere una memoria inconsolabile, una memoria di ombre e di pietra. Ho lottato da sola, con tutte le mie forze, contro l'orrore di non poter più capire il perché del ricordo. Come te, ho dimenticato...Perché negare l'evidente necessità della memoria?”


E’ dunque la memoria necessaria ed evidente. Si tenta di dimenticare, si pretende di avere una memoria “di ombre e di pietra” (e qui riappare l’immagine desolante di Hiroshima colpita dai bombardamenti, dove ciò che rimane non è altro che, appunto, pietra e ombre), ma non se ne è capaci. Ciò che la pellicola vuole mostrarci è allora l’assurda essenza della memoria, che diventa paradossalmente forma intrinseca del dimenticare. Eppure dimenticare non è possibile, almeno non prima che la memoria abbia compiuto, per così dire, il suo dovere.

Pertanto diventa, l’amore, come la storia, eternità.

C’è la paura che il dolore che spesso l’amore provoca, ma soprattutto la guerra, i bombardamenti, la distruzione facciano di nuovo capolino e feriscano altre vite:


“…Écoute-moi. Je sais encore. Ça recommencera. Deux cent mille morts.

Quatre-vingt mille blessés. En neuf secondes. Ces chiffres sont officiels. Ça

recommencera. Il y aura dix mille degrés sur la terre. Dix mille

soleils, dira-t-on. L’asphalte brûlera. Un désordre profond régnera. Une ville entière

sera soulevée de terre et retombera en cendres…”


“Listen to me. I know something else. It will begin again. 200,000 dead and 80,000 wounded in nine seconds. Those are the official figures. It will begin again. It will be 10,000 degrees on the earth. Ten thousand suns, people will say. The asphalt will burn. Chaos will prevail. An entire city will be lifted off the ground, and fall back to earth in ashes…”


“Ascoltami. So qualcos'altro. Ricomincerà. 200.000 morti e 80.000 feriti in nove secondi. Queste sono le cifre ufficiali. Ricomincerà. Ci saranno 10.000 gradi sulla terra. Diecimila soli, dirà la gente. L'asfalto brucerà. Il caos prevarrà. Un'intera città verrà sollevata da terra e ricadrà sulla terra in cenere…”


Quarantun anni dopo, il 26 aprile, il disastro nucleare di Chernobyl.


Queste parole vengono pronunciate ancora una volta da Elle, che si trova a Hiroshima per girare un film sulla pace. Pace e guerra. Bianco e nero. Ricordo e oblio. Amore e morte.


Resnais affronta, grazie anche all’ausilio di Sacha Vierny e Michio Takahashi, che rendono la fotografia - come fa la Duras con la sceneggiatura - altrettanto poetica, i Leitmotiv(e) della vita dell’umanità.

Ma non è Elle a lasciare il dubbio nello spettatore, al contrario. Lei sembra essere la ‘voce’ della verità, la sicurezza stessa del regista, della sceneggiatrice e di Bergson, come si è detto - anche attraverso quella pseudo-profezia sopra citata.


E’ Lui ad affermare, inaspettatamente:


“Et puis, un jour, mon amour, tu sors de l’éternité.”

“And then, one day, my love, you come out of eternity.”

“E poi, un giorno, amore mio, esci dall'eternità.”



Qualcosa sembra interrompersi, recidere il filo infinito dell’eternità che fino ad allora sembrava essere sinonimo dell’amore e della storia, come si è detto. Se Elle esce dall’eternità viene dunque dimenticata, diviene vittima dell’oblio a cui tanto si era cercato di sfuggire? O raggiunge invece una dimensione tanto atemporale che nemmeno l’eternità può essere considerata come possibile destinazione? Il quesito lo lascio aperto a interpretazione. Hiroshima Mon Amour merita semplicemente di essere guardato, perché non può che sconvolgere - proprio come i bombardamenti, proprio come la storia d’amore tra Elle e Lui - lo spettatore. E questo non è solo un omaggio a tale capolavoro della storia del cinema, ma un invito a te, lettore, a diventare, per l’appunto, spettatore.







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