Secondo la mia professoressa di italiano del liceo, The Catcher in the Rye è il classico libro che ci invaghisce da giovani ma che ci annoia da adulti. Non credo di avere ancora l’età giusta per poter constatare quanto tale affermazione sia veritiera, per cui voglio concentrarmi sul perché l’opera di Salinger sia considerata un capolavoro del genere dei romanzi di formazione.
Una ragione per la quale questo libro americano degli anni ‘40 ha fin da subito riscosso successo è il tono sincero e diretto con cui il protagonista narra del suo vagare a New York prima di tornare a casa, dopo essere stato espulso dall’ennesima scuola privata. Holden è un giovane intraprendente che, proprio come molti adolescenti, maschera le proprie insicurezze con arroganza e superiorità. Gira sempre con un vecchio cappello da caccia e una sigaretta in bocca, ha spesso la testa tra le nuvole, non si impegna minimamente a scuola perché si sente circondato da phonies, gente falsa, con la puzza sotto il naso, che non si merita il suo tempo. Holden è diverso, lui conosce la loro farsa e la ripudia con tutte le sue forze, anche a costo di non diplomarsi mai. I suoi compagni, le sue amiche, i suoi professori: tutti intrisi di volgarità dell’anima, o, come direbbe il critico russo Nabokov, tutte vittime della poslost’.
E così, con quel tipico atteggiamento da volpe che non raggiunge l’uva e dunque si convince di non averne bisogno, Holden lascia la scuola sapendo di aver sprecato fin troppo tempo là dentro. Prende il treno e arriva a New York, cerca compagnia, incontra un vecchio amico ed una ragazza, addirittura “rimorchia” una giovane ad un bar e in albergo paga per una prostituta, ma quando questi se ne tornano a casa, il protagonista è comunque insoddisfatto: la breve distrazione che ha cercato con tanta ansia non cancellerà la sua inquietudine, il suo sentirsi fuori luogo o il suo imbarazzo col sesso femminile. Tutti i suoi pensieri, le sue azioni, i suoi modi di fare, si sommano in una strana climax di emozioni contraddittorie, la quale raggiunge l’apice verso la fine del romanzo, quando Holden si immagina suo fratello che gli cammina accanto, quasi volendo ignorare la morte di quest’ultimo, e rivela così al lettore un lato tenero che ha sempre tenuto segreto. E dopo, intrufolandosi a casa sua per fare un saluto alla sorellina, si ricorda erroneamente le parole di una vecchia canzone popolare, che userà per rispondere alla domanda infantile “Cosa vuoi fare da grande?”: questo è il momento in cui il protagonista si mostra finalmente per quello che è. Holden vorrebbe essere un acchiappatore di bambini che corrono e stanno per cadere da un burrone, in un campo di segale, come gli ricorda la canzone (“If a body catch a body comin’ thro the rye..”). Vuole proteggerli dal pericolo, salvarli dalla morte, come non ha potuto fare per suo fratello Allie.
Il fumo delle sigarette e il vecchio cappello da caccia non possono più nasconderlo: il sedicenne è smascherato. Non sa cosa fare della sua vita, non sa effettivamente quale sia la sua meta; sa solo da dove partire, cosa lasciarsi indietro, nonostante la sua nostalgica necessità di riavvolgere il nastro della sua vita e rivivere i bei tempi andati della sua infanzia, come un uomo adulto che rimpiange la gioventù.
Secondo alcuni il nome del protagonista ricorderebbe l’aggettivo old che in inglese significa vecchio. E’ possibile dunque che quel giovane inquieto nasconda un’anima antiquata? Oppure è il suo atteggiamento tipicamente adolescenziale a voler comportarsi da adulto che lo fa invecchiare agli occhi altrui? Forse è Holden stesso a sentirsi vecchio, con le sue aspre critiche alla società e il tono superbo con cui racconta al lettore la sua vita. Inoltre la sua inquietudine, quell’ansia di vivere e di lasciarsi indietro il passato, rappresenta un topos antico, conosciuto, ma non per questo banale. Infatti, il Pianto antico di Carducci è così intitolato perché fa riferimento ad un sentimento secolare, una situazione comune a tutti gli esseri umani, ovvero la perdita di un caro, che nel caso del poeta vate è sentita con più struggimento perché la perdita riguarda un figlio. L’anima antica del personaggio creato da Salinger dunque nasconderebbe questo lato universale, terribilmente romantico, che fa a pugni con la realtà in cui tutti sembrano essere ben inseriti, e Holden si sente l’unico a rendersi conto del vuoto sottostante. Un adolescente indisciplinato sembra essere il solo essere umano a notare la patina edulcorata della modernità, che vuole coprire il buio e il male con colori sfavillanti e sorrisi a trentadue denti.
Forse adesso capisco perché questa storia abbia un altro effetto sui lettori adulti rispetto a quelli giovani: da ragazzi si è romanticamente consci della falsità umana, proprio perché siamo noi i primi a fingerci più grandi, siamo noi i bambini che imitano gli adulti per imparare a camminare e parlare. Quando però la mimesis aristotelica non è più necessaria alla nostra formazione, quando cioè diventiamo grandi, cominciamo ad essere noi stessi piccoli ingranaggi all’interno della macchina dell’età adulta e veniamo inglobati dalla routine, dal lavoro, dalla logica del profitto.
Questa ovviamente è una visione un po’ semplicistica e infantile del ‘mondo dei grandi’, che può essere riassunta in una citazione di The Breakfast Club (“when you grow up your heart dies”), film adolescenziale per eccellenza. Ma intanto che la sconosciuta vita degli adulti mi sembra ancora lontano, leggo e rileggo The Catcher in the Rye di Salinger e mi commuovo ogni volta.
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