Recensione di “Rifkin’s Festival” di Woody Allen
Uno dei settori che maggiormente è stato colpito dalla falce della pandemia di Covid-19 è stato senza dubbio quello culturale. La recente riapertura delle sale è però un segnale che forse (e sottolineo forse) la tanta agognata normalità è sempre più vicina. La piacevolissima notizia del ritorno al cinema è stata accompagnata da un prezioso regalo da parte di Woody Allen: è uscito infatti il suo quarantanovesimo film, chiamato “Rifkin’s festival”.
Ambientato a San Sebastian, località turistica dei Paesi Baschi, un anziano maestro di cinema Mort Rifkin (Wallace Shawn) accompagna la moglie Sue (Gina Gershon) in uno dei suoi viaggi di lavoro, in quanto ufficio stampa di un famoso attore francese chiamato Philippe (Louis Garrell). La storia è un racconto dentro un racconto, siccome notiamo all’inizio che gli avvenimenti sono narrati da Mort stesso al suo psico analista, figura che ricorre spesso durante il film; il protagonista è infatti ipocondriaco, percependo dolori al petto solo quando lascia la sua amata New York (città molto cara e fonte d’ispirazione anche a Woody stesso). Nonostante l’amore tra la coppia sia sincero, Mort si ritroverà spesso ad essere il terzo incomodo tra sua moglie ed il promettente Philippe, il quale si atteggia da paladino della giustizia ma anche da grande latin lover.
Philippe è inoltre il bersaglio indiretto dalla sferzante ironia del regista (il quale si può ritrovare in mr.Rifkin), siccome nei suoi film l’attore porta temi attuali, “reali”, mentre il protagonista considera più vitale ed interessante interrogarsi sui grandi quesiti dell’umanità, da Dio alla Morte, ed esaltare gli illustri registi del passato.
Ciò avviene tramite il contrasto tra i toni caldi e soffusi della Spagna (che ricordano il precedente capolavoro “Vicky Cristina Barcellona”) ed i sogni-omaggi ai “Grandi del Cinema”. Nel film i riferimenti sono numerosissimi: da “Il posto delle fragole” ad “Il settimo sigillo” di Bergman; da “Quarto potere” a “Un uomo, una donna” di Lelouch; da “Jules e Jim” a “Fino all’ultimo respiro”, senza dimenticare di omaggiare il grande Federico Fellini ed il suo “8 ½”.
Questi film compiono il ruolo di salvagente per Rifkin-Allen, il quale rischia di trovarsi travolto di fronte alla voglia di attualità della nuova cinematografia, troppo incollata alla noiosa realtà e troppo lontana dalla confortante fantasia; questo sentimento è espresso anche dal romanzo non-scritto di Mort, il quale deve raggiungere le vette mondiali della letteratura, ma per farlo, deve restare una mera illusione, o meglio, un innocente sogno.
Il finale dolceamaro tipico dei film marcati Woody si ripresenta anche stavolta, andando così a confermare la affascinante staticità della vita, ma più che altro della realtà, inerme di fronte all’eclettismo della fantasia.
Spettacolo assolutamente da non perdere (specialmente dopo mesi di astinenza) riporta nelle grandi sale anche volti ben conosciuti come Cristoph Waltz (l’austriaco punta di diamante di Quentin Tarantino) ed altri più curiosi, come Enrique Arce (Arturito nella “Casa di Carta”). Se il film non vi piacerà non temete, potrete comunque tornare a casa sapendo di aver aiutato a far ripartire la cultura.
Emanuele Nesti
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