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STORIA DEL CINEMA IN PILLOLE: ANNI 50, "IL SETTIMO SIGILLO"

Aggiornamento: 27 apr 2021



“Quando l'Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz'ora. Vidi che ai sette angeli ritti davanti a Dio furono date sette trombe.” -Apocalisse di San Giovanni, 8, 1-2


Svetonio nella “Vita di Vespasiano” scrisse: "la volpe cambia il pelo, ma non il comportamento"; una versione antica e latina del nostro “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”. Questo è quello che Ingmar Bergman nel suo “Settimo Sigillo” del 1957 volle trasmettere allo spettatore: la visione di come individui con mentalità medievali reagissero allo stesso modo di un contemporaneo di fronte alla caducità della vita ed alla manifestazione più spietata della morte, diventando preda dell’isteria.


Il regista ci conduce infatti in un’epoca lontana dalla tecnologia e dall’informazione, in un mondo decimato dalla peste e psicologicamente oppresso dall’Ignoranza, dove un nobile cavaliere, Antonius Block (recitato dal monumentale Max Von Sydow), tornato vivo ma interiormente ferito dalla crociata in Terra Santa, incontra la fredda Morte personificata (interpretata da Bengt Ekerot), che lo chiama a sé nel regno misterioso dell’Oltretomba.


LA VERITÀ: Il cavaliere, ancora in ricerca di una Verità assoluta, non trovata durante le crociate, tenta di patteggiare invitando la Morte ad accettare una partita a scacchi: se vince lui, avrà salva la vita; se invece vince il Grande Falciatore, dovrà definitivamente abbandonare questa vita terrena.


La Morte accetta, camminando di fianco al protagonista per tutto il film, accompagnato da molti altri personaggi, tra cui i più importanti sono il suo scudiero Jons (Gunnar Bjornstrand), il quale è scettico di fronte ad ogni concetto divino, e la famiglia dei comici, tramite cui Block assaporerà il puro senso della vita, legato ai caldi amori fraterni e familiari.

Solo con il sacrificio che compirà per loro il cavaliere considererà realizzato il suo scopo, e sarà finalmente pronto ad accettare l’inevitabile fine.


IL SILENZIO DIVINO: “Per quale ragione si nasconde tra mille promesse e preghiere sussurrate? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? (…) Perché non posso uccidere Dio in me stesso? (…) E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?”


Oltre alla ricerca della verità, il film ragiona anche sul “silenzio di Dio”, siccome tutte le divinità, se pur invocate, si rifiutano di rispondere; la Morte, a questa universale domanda, ci nasconderà la risposta, probabilmente perché nemmeno lei ne è a conoscenza essendo un semplice Caronte per il mondo ultraterreno.


Un passo fondamentale lo si ha al momento dell’uccisione della presunta indemoniata, capro espiatorio per la pestilenza che devasta le campagne svedesi. In lei il protagonista non trova traccia di nessuna presenza demonica, notando però una grave debolezza psicologica, della quale l’irrazionalità del popolo ne ha approfittato. Con la sua esecuzione inoltre lo scudiero mostrerà come la paura negli occhi della condannata non sia dolore, ma realizzazione dell’oblio a cui sta andando incontro, immagine troppo forte da vedere, al punto che pure un ateo come lui è costretto ad abbassare lo sguardo.



Chi veglia su di lei? Gli angeli, Dio, Satana, o il nulla?





L’AMORE: Come recitava il bracciale della monaca manzoniana, l’unico dio che ci può aiutare è invece l’amore: Amor vincit omnia.

L’amore, “perfetto nella sua assoluta e squisita imperfezione, è l’unico elemento che può veramente lenire il dolore della morte, ed esso è ben raffigurato al momento del pranzo con la famiglia dei comici, che nonostante fosse derisa da tutti (il ruolo dell’attore era mal visto durante il medioevo), il legame che li unisce è talmente forte che niente lo può sciogliere, neanche la perfida violenza popolare; è con questo messaggio che Block arriverà alla fine del suo tragitto.


“Lo ricorderò, questo momento: il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte, i vostri volti su cui discende la sera, Mikael che dorme sul carro, Jof e la sua lira… E sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere.”



Tratto dalla pièce teatrale Pittura su Legno, che lo stesso Bergman aveva scritto nel 1955 per la sua compagnia, niente è così dannatamene bello, filosofico, storico e contemporaneo allo stesso tempo, al punto da essere considerato dal pubblico e dalla critica uno dei suoi migliori film ed il più iconico della cinematografia Novecentesca; nessuna parola lo descrive bene, se non “capolavoro”.


Emanuele Nesti

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