Di lavoro io faccio l'autista di site, da oltre vent'anni ormai. Ho iniziato presto, non serve certo una laurea, basta avere una predisposizione naturale alla pazienza e alla concentrazione. Con queste due, puoi guidare qualsiasi cosa e ovunque.
Ogni giorno mi alzo alle cinque, da solo. Mi lavo i denti, mi faccio la barba, niente colazione perché a quell'ora il cibo mi rimane sempre tutto sullo stomaco.
In tutto il corso della giornata fumo venti sigarette, le conto sempre perché mia madre dice che fanno male, e io voglio darmi un limite per farla contenta. Cambio tre site diverse, a seconda di dove mi mandano; freno a circa 150 fermate, le conosco così bene che ne potrei recitare i nomi a memoria, anche quando si trovano in posti che di nomi non ne hanno. Potrei addirittura guidare ad occhi chiusi, ormai, e capire quando iniziare a scalare marcia, ma non l'ho mai fatto.
Venti sigarette, tre site, centocinquanta fermate. La gente sale e scende, e io non cambio mai. Forse è questo il brutto del mio lavoro: vedo migliaia di volti diversi, ogni anno arriva e se ne va qualcuno; le site e gli autobus vengono sostituiti e rottamati, e io me ne sto sempre qui da solo, le mani strette sul volante dove hanno quasi lasciato le impronte.
Non sono un uomo solitario, non lo sono mai stato. Ma sono un uomo solo. Con il passare degli anni, ho iniziato a chiedermi se questo non sia un naturale effetto collaterale del mio lavoro: più sono le persone con cui stai a contatto, e meno sono quelli che sanno davvero chi sei.
A volte mi domando se la gente che trasporto si ricordi di me quando non sale qua sopra, o se manca loro la mia faccia quando sono in ferie o vengo sostituito da un altro autista. Mi piace immaginare la loro delusione quando salgono e non mi trovano lì, pronto a sorridere e a salutarli come se li conoscessi da una vita. I miei passeggeri sono i miei unici amici, ormai, e pensare di avere un posto, seppur minimo, nelle loro vite mi fa sentire di essere anche io amico loro.
In realtà, so benissimo che non è così. Io sono un intermezzo, un momento di stallo, la pubblicità che interrompe il film delle loro vite. Sono come la sala di attesa di un medico, la hall di un hotel, la fila alla cassa dei negozi: un momento futile, una perdita di tempo, qualcosa da dover sopportare per forza.
A volte dallo specchietto li osservo, i miei passeggeri, e scorgo i visi stanchi di qualche ragazzo che torna da scuola. Guardandolo, mi chiedo che cosa ne sia stato di me, dell'uomo che ero. È sparito così in fretta che potrei benissimo averlo investito con la mia sita, senza neanche accorgermene, lasciando di lui soltanto una macchia sporca sull'asfalto.
No, no. Il problema è un altro, lo è sempre stato! Se non mi ricordassi di lui non potrei soffrire, no? Se riuscissi a dimenticare, a prendere le cose con leggerezza, a lasciarmi il passato alle spalle, scoprirei che la vita non finisce all'improvviso, un giorno come tanti, ma cambia soltanto. Non possiamo pretendere che tutto resti invariato, è impossibile, è la legge dell'universo.
Eppure... eppure ho sempre avuto una memoria di ferro, questo mi va riconosciuto. Alle superiori sapevo recitare a memoria le prime cento cifre del Pi Greco, senza fare errori. Ad oggi riesco a ricordare perfettamente cosa ho mangiato per la cena dell'ultimo dell'anno quando ero solo tredicenne. È questo il mio più grande pregio, e anche la mia peggiore condanna.
Ed è questo il motivo per cui, quando un paio di mesi fa lei è salita e si è seduta nel primo sedile, l'ho riconosciuta all'istante. Non l'ho trovata invecchiata, solo più bella, anche con le rughe ed i capelli screziati di bianco.
Non l'ho salutata quando è salita. Ho voltato il viso, per non farmi vedere, e l'ho sbirciata dallo specchietto retrovisore per tutta la durata del tragitto.
Era lì, seduta, adulta e fiera, così vicina che avrei potuto sentirne il profumo. Il solito sguardo deciso sul suo corpo di donna, quel corpo che avevo accarezzato, baciato, amato, sacrificando la mia ultima innocenza infantile in nome di quell'amore che ancora non riuscivo a capire.
Adesso guidavo e tenevo gli occhi incollati sulla strada, ma cercavo di mostrarle il mio cuore, implorandole di riprenderselo.
Mi chiesi se fosse sposata, se avesse dei figli, che lavoro facesse, dove andasse al mare in estate. Allora mi immaginai un mio futuro ipotetico con lei, in contrapposizione con la mia attuale non vita, e quella sera, tornato nel vuoto della mia casa, piansi.
Come si può amare chi nemmeno si conosce più? Come si può avere nostalgia di qualcosa che non ci è mai appartenuto? Come ci si può innamorare in un attimo, a cinquant'anni, come se ne avessimo ancora sedici?
Piansi seduto al tavolo vuoto della mia cucina, c'era solo una sedia, era apparecchiato per uno. Piansi per una vita che avevo perso prima ancora di viverla, mandata direttamente a rottamare come le site troppo vecchie. Piansi perché lei mi aveva visto, ma non guardato, perché non mi aveva riconosciuto, e con quella leggerezza aveva mandato in frantumi tutto ciò che io credevo di essere. Il mondo intero era esploso sotto il tocco del suo sguardo, e io mi ero reso conto di non esistere più, né per lei, né per gli altri, né tanto meno per me.
Forse era questo a farmi soffrire di più: ricordare chi fossi quando ancora ero qualcosa. La nostalgia non mi fece mangiare, non mi fece dormire, mi fece andare stretto quel monolocale che puzzava di fumo. È il sentimento più egoistico che esista: non guarda agli altri, non si ha nostalgia di loro, ma solo di come loro ci facevano sentire. Di fatto, quelli di cui abbiamo davvero nostalgia, non siamo altro che noi stessi.
E mentre mi rigiravo insonne nel letto sfatto, pensavo alla sua voce giovanile, quando ridendo accettò la mia prima timida richiesta di amore. Diceva sempre che ero un ragazzo di cartone, con quella sincerità creativa che con gli anni sparisce, come l'acqua di scolo che scivola in un tombino. Diceva che sembravo rigido, spento, spoglio, che stavo sempre zitto, ma solo perché avevo dentro un cuore troppo grande, troppa passione, troppi ideali, troppi pensieri.
Io le credevo, mi dava quella stessa gioia e speranza di un bambino che si sveglia la mattina di Natale, ma non ho mai pensato che anche lei amasse me, che potesse provare la stessa cosa che io provavo per lei, e che l'amore l'accecasse, la rendesse bugiarda.
La verità infatti, è che ero rigido e immobile perché non mi interessava essere espansivo. Ero spoglio perché non avevo alcun colore da mettermi. Ero zitto perché non avevo davvero niente da dire. Era lei a rendermi vero, pieno, profondo, e ora che lei non l'avevo più, non avevo più nemmeno me stesso.
Sulla sita, premette il pulsante rosso di fermata, raccolse la sua borsa e scese, lanciandomi un saluto distratto. Io chiusi le porte, mi accesi la sedicesima sigaretta e ripartii.
Forse avrei dovuto scusarmi con gli altri passeggeri, spegnere il motore e seguirla, cercare disperatamente di conoscerci di nuovo.
Non l'ho fatto, non ci sono riuscito. Questa sita è come sabbie mobili: più ci stai immerso e ti agiti, più ci affondi dentro, e io me le sento ormai fino al collo.
Vorrei che uscirne fosse così facile come sbattere le palpebre, e riaprire gli occhi sull'inizio della mia gioventù, sulle corse imprudenti in motorino con la sicurezza delle mani di lei sui fianchi. O ancora prima, quando giocavo sulle altalene dei giardini dietro casa con qualsiasi bambino disponibile. O addirittura ancora prima, minuscolo embrione nel ventre caldo di mia madre.
Quando ripenso alla mia vita in questi frangenti mi riconosco infante, bambino, ragazzo, uomo, amante, adulto. Sono stato tante cose e tutte diverse e belle a modo loro, e so che la nostalgia fa parte della vita, ma adesso mi logora, mi fa sentire un nonnulla.
La nostalgia è come un gas: dalle una stanza e si prenderà tutta la stanza, dalle una casa e si prenderà tutta la casa. Io le ho dato me stesso, e lei tutto me stesso si è presa.
Adesso guido solo le site. Saluto i ragazzi che accompagno a scuola, chiacchiero con le anziane che si siedono ai primi posti, suono il clacson ai conoscenti che vedo per strada. Ad ogni fermata spero di vederla, ma lei non c'è mai. Potrebbe crollare il mondo, scoppiare un altro Big Bang, nascere il nuovo messia: io vorrei solo che lei tornasse.
Rimpianto. Una parola così infima, un sentimento così sottile, si infila nel naso come un virus, infetta le cellule lasciandosi dietro nient'altro che acidità, amarezza, mancanza. Mancanza di cosa, poi? Di ciò che hai avuto e perso, di ciò che non hai mai avuto e perso comunque?
Nella mia lunga vita ho avuto modo di confrontarmi con esso più di una volta, ed ho capito due cose: uno, la vita ti mette sempre K.O. Due, non esistono banchi degli oggetti smarriti: ciò che hai perso resta perso per sempre, come quando dimentichi l'ombrello sul sedile della sita. Puoi inseguire le cose quanto vuoi, a corsa che sia o con il piede premuto sull'acceleratore; puoi rincorrere il tempo nella speranza di farlo scorrere all'indietro, puoi agitare le braccia nel tentativo di salvarti dalle sabbie mobili. Tu perdi sempre, la vita ti stende, ti manda al tappeto.
È come un incontro di wrestling contro un uomo di 170 kg di muscoli, e tu sei un ragazzino di appena quindici anni. Magari puoi sfruttare velocità e agilità, seppellire i ricordi per non sentirne la mancanza e scendere dal ring come ho fatto io, ma la vita ritorna, ti presenta il conto. Ha i capelli brizzolati e si siede sulla tua sita, non ti permette di sottrarti o di ignorarla, ce l'hai dietro come un'ombra, non te ne liberi mai.
La mia nostalgia e i miei rimpianti mi hanno spiattellato in faccia tutta la storia della mia vita in un susseguirsi di immagini, e io l'ho vista passare in diretta da montagna a sasso, da mare a goccia, da tutto a nulla. Forse la nostalgia può aiutarci a capire chi siamo, a me ha aiutato a capire chi non sono, e io non sono nessuno.
Perché la verità è che io, una volta sceso da questa sita, semplicemente non esisto più.
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