Io sono come te
- Francesca Spagnoli
- 16 nov 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Tutti abbiamo sentito parlare di razze: razze di cani, di gatti, e nell’ultimo millennio abbiamo iniziato anche a sentir parlare di razze di uomini. Tra le tante, la "razza" ebraica è diventata tristemente famosa, così come, dall'altro lato della medaglia, quella ariana.
Siamo sicuri però di poter definire il genere umano a suon di razze, o è meglio distinguerlo per etnie? Come diceva Einstein, dopotutto "io appartengo all'unica razza che conosco: quella umana".
Si tratta di moralismo, scienza o rispetto?
Dunque, dentro le vene di più di sette miliardi di esseri umani scorre il medesimo DNA, composto dalle medesime basi azotate e dai medesimi ponti a idrogeno. Eppure ci sono degli aspetti che sono, a prima vista, evidentemente e clamorosamente diversi tra individuo e individuo. Come è evidente, d’altronde, che un figlio assomigli più ai suoi genitori che a un estraneo, allo stesso modo si trovano maggiori differenze tra persone che abitano in luoghi tra loro lontani e che hanno culture differenti rispetto a vicini di casa.
In realtà, come ci insegnano a scuola fin dai primi anni di elementari, tutti gli uomini discendono da un unico antenato comune, che si è poi evoluto nel tempo: da Habilis a Erectus, a Sapiens, a Sapiens sapiens, e lo ha fatto così bene da guadagnarsi la sopravvivenza, la resistenza e la supremazia nel regno animale nel corso dei secoli.
Nonostante siano passate migliaia di anni, siamo molto più simili ai nostri antenati di quanto crediamo. Insomma: siamo tutti un po’ scimmie in fondo (e non è un'offesa!). Scherzi a parte, questo lo si può ben vedere in molti dei necessari atteggiamenti che hanno portato la nostra specie fino al livello attuale, superando la selezione naturale. Uno di questi è, ad esempio, la scelta dei partner per la riproduzione: gli esemplari femminili tendono a prediligere maschi robusti e muscolosi, come ai tempi delle Caverne, in cui avere un partner di tale calibro significava maggior sopravvivenza per la prole. Gli individui maschili, invece, ricercano partners prosperose, perché questo aspetto è sia simbolo di salute che di fertilità, necessaria per la crescita di un figlio sano che possa portare avanti la specie.
Adesso l'uomo ha raggiunto uno stadio di evoluzione sociale, culturale e mentale tale da superare certi aspetti. O, almeno, dovrebbe. Come abbiamo detto all'inizio, meno di un secolo fa c'era chi si riteneva fisicamente e intellettualmente superiore e non accettava unioni di alcun tipo tra individui di questa razza superiore e quelli di quelle ritenute inferiori.
Ma ritorniamo alle scimmie. Tutte loro, per sopravvivere, hanno dovuto adattarsi necessariamente all’ambiente e al clima che trovavano nei diversi habitat: pelle scura come barriera contro i raggi solari in zone particolarmente colpite dal sole, occhi a mandorla come difesa dal freddo, dalla luce e dalle intemperie, eccetera.
Tutto è incentrato sulla teoria Darwiniana: sopravvive il più forte e quello che si adatta meglio. E questo è il grande motore del mondo.
La domanda iniziale, quindi, cambia la propria natura: non si parla più di cosa sia la razza, quanto piuttosto di cosa sia l'uomo stesso.
E la risposta è che, fondamentalmente, siamo tutti uguali. Non solo da un punto di vista etico, ma anche puramente scientifico: discendiamo dalle stesse scimmie, abbiamo lo stesso numero di geni, lo stesso numero di braccia e di gambe. Siamo il prodotto dell'evoluzione e del cosmopolitismo, il frutto di culture venute a contatto nel corso dei secoli e che si sono influenzate a vicenda, portando modi di dire, usanze e costumi diversi e simili allo stesso tempo.
Un esempio di questo è proprio un modo di dire, riferito a coloro che vedono i difetti degli altri risultando inspiegabilmente ciechi di fronte ai propri: “il bue che dà di cornuto all’asino”. Quando è conoscenza comune che, tra i due, l'asino è quello che di certo non ha le corna.
Gli inglesi utilizzano un’immagine differente: “the pot calling the kettle black”: “Il calderone che chiama nero il bollitore”, con esattamente il medesimo significato: era il calderone ad essere messo sul fuoco ed annerito con i ripetuti utilizzi.
I Cinesi invece dicono: “五十步笑百步” (“wǔshí bù xiào bǎi bù”) che letteralmente significa: “Colui che arretra di cinquanta passi ride di quello che ha indietreggiato di cento”. Anche qui troviamo una figura rinomata, quella di un soldato che, per primo, è scappato dalla battaglia tornando indietro di cinquanta passi e che prende in giro il secondo, perché era retrocesso di un numero maggiore di passi.
Perciò, per quanto possa apparire diverso il nostro aspetto esteriore, per quanto siano diverse tra di loro le nostre abitudini e culture, alla fine dei conti siamo tutti scimmie un po' più evolute delle altre che, se solo fossero furbe, smetterebbero di fare guerra ad altre scimmie.
"L'uomo ha inventato la bomba atomica, ma nessun topo al mondo costruirebbe mai una trappola per topi", direbbe ancora quel genio di Einstein.
Forse siamo scimmie che hanno bisogno di evolversi un altro po', prima di capire davvero questo concetto, e realizzare che non c'è cosa più stupida che odiarsi l'un l'altro. Perché tutti piangiamo e ridiamo, mangiamo, andiamo in bagno, amiamo, soffriamo. E se siamo così simili, perché ci ostiniamo a volerci vedere così diversi? Io sono come te e tu sei come me. E non c'è niente di più bello.
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