Mio nonno lavorava nell'università. Non so bene come funzionasse la sua testa, era la persona più variegata che conoscessi, sempre che si possa usare un termine simile per un essere umano. Sicuramente era un tipo indefinibile, talvolta anche incomprensibile. Aveva un'immagine romantica della matematica, come se le equazioni stesse fossero una poesia da interpretare, più che da decifrare o risolvere. Non credo che considerasse matematica e poesia come due aspetti totalmente opposti della passione umana, tendeva piuttosto ad unirli, ad intrecciarli, tessendo tele elaborate che apparivano subito per quelle che erano: intangibili, incomprensibili, le opere d'arte di un matto. Forse vedeva nella materia più razionale quel minuscolo puntino di romanticismo che poteva stravolgerne totalmente la natura dogmatica. Io non ho mai capito come facesse. Di solito, quando ne parlava, mi limitavo ad annuire e sorridere, tanto per farlo contento.
All'università, il nonno era solito insegnare ai suoi ragazzi come interpretare la matematica per capirla meglio, senza limitarsi a parlare di numeri. Si sentiva così a suo agio con i calcoli che ormai erano diventati parte di lui, e lui di loro. Ne svolgeva a centinaia, ogni giorno, a mente, senza durare alcuna fatica. Quando leggeva un libro gli veniva automatico contare ogni riga, ogni parola, ogni lettera, e quando lo finiva scriveva sempre quante parole conteneva, e quali gli erano piaciute di più. Questo l'ho scoperto solo dopo la sua morte, sfogliando i libri che gli erano appartenuti prima di riporli negli scatoloni. Non sono mai riuscito a darli via.
Mi raccontava così spesso dell'arrivo di nonna che ormai so la storia a menadito, come se fosse diventata un mio ricordo personale. Ne rivedo ogni dettaglio, sento ogni fruscio del vento, percepisco ogni battito di cuore. Non credo che sia stato un furto, fare di una storia altrui un qualcosa di mio. Mi piace piuttosto considerarla come un regalo, seppur inconsapevole, che il nonno ha voluto farmi nel corso degli anni. Vorrei solo essermene accorto prima.
Mia nonna si chiamava Jane, era arrivata da poco in università, veniva dall'Inghilterra. Era una donna dai modi pacati, spesso quasi freddi, ma mai offensivi o irrispettosi. Sapeva quando parlare e quando fare silenzio, quando sorridere e quando star seria. Ci sono state volte in cui ho creduto di essermene innamorato perfino io, vedendola con gli occhi del nonno. L'avevano chiamata all'università per mettere in atto l'innovazione del momento: lezioni in inglese. Per l'Italia era un passo rivoluzionario, qualcosa di impensato fino ad allora, e tutti attendevano il suo arrivo come attendevano il Natale la sera della Vigilia.
Il nonno non sapeva nemmeno una parola d'inglese: quando conti non ti serve una lingua, la tua lingua è quella dei numeri. Durante la mensa lui la scorgeva da lontano, ammirandone il fisico asciutto, i capelli lisci e biondi, la carnagione di porcellana, gli occhi totalmente neri. Era sempre troppo timido per avvicinarsi e rivolgerle la parola, e si limitava a sognare, dall'altro angolo della mensa, di sfiorare quei fianchi, di passare le dita tra quei capelli, di baciare la sua fronte perfettamente liscia. Tutte le volte che mi raccontava questa storia stringeva le mani a nonna, che arrossiva sempre sotto le rughe, ancora intimidita da tutti quei corteggiamenti. Alla passione italiana non era mai riuscita ad abituarsi.
Dopo la sua morte, il nonno cominciò a sorridere durante il racconto, e a fissare la sua sedia vuota, come se potesse vederla ancora seduta lì. Con il passare degli anni, le sue pause diventarono sempre più lunghe. Io lo lasciavo perdere, e la storia finivo di raccontarmela da solo, tanto ormai la sapevo a memoria.
Fin dal primo momento, la nonna aveva affascinato il nonno in modo quasi prepotente, togliendogli il fiato dal petto e facendogli tremare le mani. Quando la incontrava per i corridoi, cercava di cambiare strada, per non essere visto, sperando che lei non se ne accorgesse. Ma le donne sono furbe, diceva la nonna, e si accorgono sempre di tutto, anche se spesso fanno finta che non sia così.
Fu un anno dopo l'arrivo di Jane all'università che si parlarono per la prima volta.
Di solito qui la nonna lo interrompeva. "Avevi una sigaretta mezza spenta qui, all'angolo della bocca", diceva. "Eri completamente assorto nel tuo libro, gli occhiali ti pendevano sul naso e tu nemmeno te ne accorgevi. Non ti sei accorto nemmeno di quando mi sono seduta accanto a te".
Il nonno leggeva Calvino, seduto sulla scalinata esterna dell'università. Oltre i rami dei cipressi che contornavano tutta la collina, quando di tanto alzava lo sguardo dal suo libro, riusciva a scorgere il panorama della città sotto di lui. Se si concentrava, vedeva i granelli di polvere sugli scalini e le foglie secche che volavano per aria agitate dal vento. Poi, dopo qualche minuto, tornava alla sua lettura, la sigaretta ormai ridotta ad un mozzicone.
Quando la vide, si fissarono negli occhi per qualche secondo, poi lui abbassò lo sguardo, riportandolo al libro, mentre pensava a come cominciare una conversazione. Povero nonno, era tanto bravo con i numeri, ma quando si arrivava a fare i conti con le parole si bloccava come una porta chiusa a chiave. La nonna, invece, se la rideva di gusto, sia durante quel momento stesso, sia negli anni successivi, quando me lo raccontavano.
“Se avessi aspettato lui per fare il primo passo, a quest'ora mi fisserebbe ancora dall'altro angolo della mensa.” commentava la nonna tutte le volte che il nonno arrivava a questo punto. Dopo la morte di Jane, riuscivo a percepire il suo smarrimento, quando il silenzio riempiva i buchi lasciati dall'assenza dei commenti di lei. Il nonno la morte non la capiva proprio.
Allora ne presi io il posto, o almeno ci provai, e iniziai a pronunciare, ogni volta, allo stesso modo, la solita, identica, frase. Era una noia mortale, ma al nonno sembrava piacere, e tanto mi bastava.
E allora il nonno le lesse una pagina del libro. Quando si fermò, alla fine di una frase, alzò lo sguardo su di lei e la vide assorta nel fissare la città sotto di loro. Poi la nonna aveva sorriso, si era alzata e si era allontanata, bisbigliando un ringraziamento. Il giorno dopo successe la stessa cosa: il nonno finì di leggere una pagina, lei ringraziò e se ne andò. Mi ricordavano il Piccolo Principe e la Volpe, sia nel loro incontro che nel loro ultimo addio. Adesso, passati tanti anni, quando rileggo quelle scene ai miei figli, mi viene ancora da piangere.
Durante i suoi ultimi mesi di vita, il nonno mi ripeteva la storia ogni volta che lo andavo a trovare, dimenticandosi di averlo già fatto la volta prima. Spesso si dimenticava chi fossi, o come mi chiamassi, a volte non ricordava nemmeno il suo nome. Eppure ogni volta riusciva a finire la sua storia, e la raccontava sempre così bene che riuscivo sempre a vederla da dietro i suoi occhi, come se fosse stata un film. A dire la verità, ci riesco ancora, quando mi immagino la sua voce calda e roca.
Ogni volta che mi vedeva, mi ripeteva: “dovresti andarci su quella scalinata, è proprio un gran bel posto.”
L'ultima volta che lo vidi era da solo in un letto anonimo d'ospedale, semi cosciente. Non riusciva a parlare, così presi una sedia e mi sedetti accanto a lui. Ogni cosa mi sembrava banale, fuori luogo, inutilmente compassionevole. Anche io non riuscivo a parlare, un groppo in gola di quelli troppo prepotenti da inghiottire. Decisi allora di lasciarlo uscire fuori, e gli raccontai la sua stessa storia, usando le stesse parole che usava lui, facendo pause negli stessi momenti in cui le faceva lui. Non ero bravo ai suoi livelli, ma il nonno chiuse gli occhi e rimase ad ascoltare, fino alla fine.
Ho l'assoluta certezza che, in quel momento, sapesse perfettamente chi fosse, dove si trovasse, chi fossi io, cosa stesse per accadere. Mentre io piangevo, lui non disse nulla, e io lo imitai, incapace di fare qualsiasi altra cosa. Semplicemente, rimasi lì con lui a ricordare quella scalinata, come se ci fossi stato pure io. Perché, perché, non avevo mai seguito il suo consiglio e non ci ero mai andato per davvero?
Alla fine, qualche anno fa, ho avuto finalmente il coraggio di farlo, con il sostegno di mia moglie e dei miei figli. Erano ancora solo bambini, non sapevano che significato avesse per me quel posto. Loro giocavano e a me sembrava di sentire tutto, vedere tutto, capire tutto. Ma questa è un'altra storia, e non è il momento di raccontarla.
Durante quel nostro ultimo incontro, dentro la sua testa, sentivo il nonno contare. Non ho idea di cosa; forse contava le giornate di sole, oppure i gradini della scalinata dell'università. Forse contava i giorni di pioggia o tutti i suoi ritardi. Forse contava le parole contenute nella sua storia, forse contava i sorrisi di nonna. Non me lo disse: quando parli il linguaggio dei numeri, non hai bisogno di parole.
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