A mia nonna. 28/03/2020
Te ne sei andata ed era un sabato mattina, i campi erano in fiore ma nessuno sorrideva. Perché fuori non c’era nessuno.
Te ne sei andata ed era quasi mezzogiorno, tutti piangevano e non potevano consolarsi.
Il telefono che squilla ogni 40 secondi, centinaia di persone che chiedono tue notizie, che cercano una speranza.
4 persone insieme in una casa ma non del tutto vicine, senza sintomi alcuni, un grande terrore di avere un maledetto microorganismo insito in corpo. Una surreale paura di avvicinarsi, di toccarsi. Di spandere le lacrime.
Un nonno solo in una stanza da 2 settimane, ancora ignaro della tua scomparsa.
Anche lui colpito dal virus, ma già in ripresa per fortuna. Osserva inquieto un elicottero di soccorso atterrare a Ponte a Niccheri, unico segno di vita insieme al canto stridente delle sirene di ambulanza. Il resto del mondo si è fermato, in silenzio. Ci fa paura il silenzio.
Torniamo indietro.
9 Marzo, giorno del lockdown.
Un suo svenimento in farmacia che sembra niente più che uno dei suoi classichi acciacchi dovuti alle pasticche per il cuore. Le ormai abitudinarie 5/6 mattine all'anno che la pressione si abbassa troppo e non riesce a reggersi in piedi, salvo poi tornare come nuovo nelle ore successive. Ma stavolta no, è diverso. La faccia che alla sera resta pallida, la febbre a 39. La tosse, tanta tosse. Un martello rullante che rimbalza in ogni angolo della stanza. Una settimana tremenda che ci scorre via dagli occhi. Riusciamo a stento a comunicare con due persone che per premura (con l'emergenza appena scoppiata) ci impediscono di andare a casa loro a visitarli. Solo chiamate, già allora, al telefono. Poco chiare, poco rassicuranti. Capiamo solo che non riescono a capire come stanno.
La timida voce del nonno delle 16 che ci dice di essere in ripresa senza febbre si confonde con gli ansiogeni colpi di tosse delle 19, che ritornano insieme alla paura. Un saturimetro che in pochi secondi scrolla in faccia la realtà sulla testa di mio padre attraverso un freddo numero : 90. La decisione in un venerdì sera più buio e solitario che mai di farli ricoverare.
Il tampone, positivo per entrambi.
I primi sollievi alle prime sboccate di ossigeno spazzati via dalle condizioni della nonna che peggiorano, e che la portano a dover cambiare stanza dopo 3 giorni separandosi dal nonno.
Non si vedranno più.
Pochi metri a separarli ma con stanze sigillate. Le ultime interazioni della loro vita tramite sms o alcuni infermieri. Il casco che hai tenuto per fare gli ultimi respiri della tua vita e che in quei giorni di merda con la fantasia di un ragazzo appassionato di F1 me lo sono immaginato uguale a quello di un pilota, che prova, con la faccia dentro uno schermo di vetro a salvarsi la vita. Torniamo al 28 Marzo.
Il dubbio di essere entrati in una realtà parallela che solo 20 giorni prima era ipotizzabile solo in Cina e al telegiornali, e che invece ci ha negato ogni giornata.
Quel virus ha fatto scomparire quel tuo corpo grassottello ancor prima che potessimo rendercene conto. Proprio come quei cioccolatini che facevi sparire dentro la tua bocca uno dietro l'altro, con la felicità di un bambino. Anche se a Marzo scorso eravamo in Quaresima, e per fioretto ogni anno interrompevi (la fede permette tutto, dicevi).
Un microorganismo neanche visibile ad occhio nudo può portare via una persona in 10 giorni, quando arrivi a contatto con questo paradosso alla stessa velocità arriva un fulmine che ti colpisce.
Che da un lato mi ha lasciato dentro l'importanza (o l'ossessione) di godersi la preziosità di ogni singolo istante di vita. Dall'altro, mi ha permesso di lasciare intatti gli ultimi momenti passati insieme con una nonna sempre sorridente e allegra, contagiosa solo di felicità.
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