Perché la poesia dura negli anni?
La poesia ha colto il cuore delle passioni dell’uomo. Ha colto l’occhio del ciclone, il punto fermo in mezzo alla tempesta, ovvero gli ideali, i valori, i sentimenti che accomunano gli uomini di tutti i secoli. Intorno tutto ciò c’è il caos: la vita.
Non era il pastore, colui che in completa solitudine si appellava alla luna.
Non era nemmeno Leopardi: no, era l’uomo. L’animo umano pone domande, la letteratura le mantiene vive, accompagnando la vita errante e sola degli uomini. L’unica appellazione di questi pastori vaganti, sarà la poesia. L’unica che non li lascerà mai soli. La sola che permette all’umanità delle persone, nelle notti fonde e buie, persino di cantare. La ginestra in grado di germogliare anche nei terreni più aridi, siamo noi... noi che ci dimeniamo nelle macerie del nostro passato, nelle illusioni del presente e nelle attese speranze del futuro.
Personalmente, ho sempre cercato di leggere anche la musica in questo senso, e penso che Beethoven da sordo, quando scrisse “Für Elise”, spinto dalla passione per la musica, descrisse l’andamento dell’amore e della vita: in questa melodia le mani si accompagnano, una si occupa delle note basse, l’altra di quelle alte. Le note si rincorrono, come fosse un gioco di destini: si trovano, si afferrano, si lasciano e si rincorrono ancora. Il ritornello è una melodia fatta di contrasti, con note acri che cadono nelle note gravi per poi rialzarsi, fino a tornare sempre lì, in quell’alternanza di mi e re diesis. È una composizione fatta di luci ed ombre, di cadute e rialzamenti, di rincorrersi e perdersi. Noi siamo anche lì, nella musica.
In Apollo e Dafne, lo scultore Bernini non ha solo catturato l’immagine di due giovani, dove il ragazzo tenta di catturare la ragazza. C’è la voglia, la passione, la voracità, la smania delle pulsioni, lo scappare. Cos’è, questo, se non il fulcro della vita? Afferrare scappare, voglia e fuga, carne e spirito, peccato e virtù.
Lui: divoratore, lei: elemento Angelico.
Sono peccato e virtù, morte e vita insieme.
Siamo incastrati nell’inchiostro, in ogni molecola del marmo, in ogni sfumatura di colore, in ogni nota. La cultura è la colonna sonora della nostra vita. Viviamo di cultura o è la cultura che vive di noi? È come se fossero uno l’antitesi dell’altro, l’uomo e la cultura: due opposti ma entrambi necessari. L’uomo, con tutte le sue speranze, sogni, illusioni, è ciò che anima la cultura. Quest’ultima ci prende la mano, ci fa sentire meno soli, ci dà coraggio. L’arte non scompare, perché l’uomo ha bisogno di sentirsi meno solo, ha bisogno di sentire, di percepire la vita, di capire che quest’ultima gli è vicina.
Alessandro Baricco, in “Castelli di rabbia”, paragona gli uomini a dei treni in corsa, pronti a dilaniare ed ignorare il mondo, troppo impegnati nel loro correre. L’unica consolazione, l’unico punto fermo nella maratona della vita, l’unico modo per fuggire dallo squallore del mondo sarà un posticino isolato all’interno del treno. Un posticino dove ci sarà sempre un libro aperto, e dove il conducente imparerà l’arte di leggere.
Con la lettura troverà compagnia, solitudine, conforto, e la verità: il nocciolo del mondo, del caos, della vita.
“Sui treni, per salvarsi, per fermare la perversa rotazione di quel mondo che li martellava di là dal vetro, e per schivare la paura, e per non farsi risucchiare dalla vertigine della velocità che certo doveva continuamente bussargli nel cervello quanto meno nella forma di quel mondo che strisciava di là dal vetro in forme mai viste prima, meravigliose certo, ma impossibili […] sui treni, per salvarsi, presero l’abitudine di consegnarsi a un gesto meticoloso, una prassi peraltro consigliata dagli stessi medici e da insigni studiosi, una minuscola strategia di difesa, ovvia ma geniale, un piccolo gesto esatto, e splendido. Sui treni, per salvarsi, leggevano."
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