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Immagine del redattoreMatteo Mannucci

L’etica dell’uomo “smart”


La genialità e l’ego smisurati dell’uomo stanno mettendo a dura prova i diritti inviolabili individuali, oscurati dal progresso tecnologico, il fattore x di questa fase storica. La tecnologia, infatti, nonostante la sua crescita sia messa all prova dalla pandemia di Covid-19, le cui restrizioni stanno piegando il mercato internazionale, ha raggiunto una velocità di crociera impressionante e non accenna a fermarsi. Le straordinarie trasformazioni che investono il mondo hanno plasmato radicali cambiamenti di concetti e orientamenti, affianco ai quali non si può non fare riferimento alla sfera dei principi morali. L’etica, di fatto, non può rimanere indifferente di fronte allo sviluppo della scienza, entrando spesso in collisione con i progetti innovativi presentati dall’uomo, sempre più incline a non voler ammettere errori e a smarrire ogni pillola di umiltà. L’uomo, nell’accanimento che contraddistingue la sua corsa al successo, finisce per agire da cieco, dimenticando la possibilità del fallimento, talvolta invadendo lo spazio dei diritti personali. Così interviene l’etica, scienza del comportamento umano, paladina della buona condotta, dottrina che si predispone come il mezzo più efficace al fine di ricercare le regole morali dell’essere vivente. Ma di certo non sarà la filosofia del buon agire a scoraggiare il progresso, la fame di potere e di denaro. Tuttavia credere di poter sovvertire le leggi del pianeta è tanto effimero quanto pericoloso. Il rischio è che la tecnologia finisca col fagocitare l’uomo, disumanizzandolo e materializzando valori da sempre ritenuti intoccabili. Addirittura l’orizzonte che ci aspetta (e che, a dire il vero, abbiamo già raggiunto) offre ben poco spazio per libertà personali, favorendo la discriminazione, la manipolazione dell’opinione pubblica, mettendo in discussione la sicurezza dei cittadini.


Dimostrazione lampante del disagio fomentato dal contrasto tra etica e tecnologia, le due “energie” in conflitto, è sicuramente l’Intelligenza Artificiale (AI).

L'AI ha già dimostrato tutto il suo potenziale nei più svariati ambiti della scienza e della tecnologia: dall’analisi dei dati alla lotta al terrorismo, dalla ricerca medica alle missioni spaziali.

Tra i risultati conseguiti, è da sottolineare l’incremento dell’efficienza che consente una migliore conduzione di azioni complesse, come la gestione dei rifiuti urbani e delle risorse, fino ad una oculata riduzione dei consumi energetici, per un rispetto maggiore dell’ambiente.

Altro aspetto positivo riguarda il suo impiego nella diagnosi e soprattutto nella terapia medica. Le AI, di fatto, possono analizzare e mettere a confronto storie cliniche e casi patologici identificando pattern e dettagli che spesso sfuggono all’occhio umano, aiutando a individuare patologie e prevenirne l’andamento; in altre occasioni, invece, attraverso microchip di controllo applicati ad un paziente, possono permettere ad un computer di monitorarne i parametri vitali e prevedere eventuali problemi prima che questi si verifichino. In alcuni paesi sottosviluppati sono già in essere misure di questo tipo per tenere sotto controllo malnutrizione e malattie.



Eppure c’è un "piccolo" problema... La potenza dei sistemi di AI, se male indirizzata, potrebbe diventare molto insidiosa. E non stiamo parlando del rischio di robot killer che si aggirano per le nostre città sparando a chiunque, ma di "cattivi usi", più sottili e altrettanto pericolosi, di applicazioni già esistenti oggi. Ne è un esempio il caso del ciclista investito e ucciso, nel marzo del 2018 in Arizona, da una delle auto a guida autonoma di Uber. Le indagini hanno messo in luce come il sistema di guida della vettura non sia riuscito a identificare e classificare la vittima come “persona in bici”: potrebbe averla scambiata per un sacchetto di plastica svolazzante, travolgendola inconsapevolmente. Un errore di programmazione, che si sarebbe potuto evitare. Ma chi verifica l’effettiva sicurezza dei meccanismi di guida autonoma? Chi si deve prendere la responsabilità di dare la patente ai robot?


E a proposito di dare la patente... rimanendo nell’ambito dei mezzi di trasporto, quando si parla di veicoli futuribili si pensa alle vetture volanti, profetizzate dal film fantascientifico Blade Runner. Svariati sono i progetti avviati, così come i prototipi già presentati. Porsche e Boeing hanno firmato nel 2019 un protocollo d’intesa per esplorare il mercato premium della mobilità aerea urbana e l’estensione del traffico urbano nello spazio aereo. Hyundai e Uber Technologies si sono alleate per sviluppare taxi elettrici volanti. E ancora Volocopter assieme Mercedes Benz Design, Aston Martin, le giapponesi Skydrive e Toyota... tutte alla ricerca del concept perfetto. Se questo futuro sarà realtà, nelle grandi città ci si dovrà preoccupare delle auto che sfrecceranno in cielo. E in caso di guasto dell’impianto del “veicolo con le ali”? Il rischio è di assistere a una caduta rovinosa, a un incidente che potenzialmente potrebbe arrecare più danni di quelli, già devastanti, stradali. Non che non siamo abituati a vedere sfrecciare veicoli in cielo... se andate a controllare il traffico aereo che si sta consumando in questo momento sopra le vostre teste, vi accorgerete di stare di fronte ad un mappamondo coperto da una grossa macchia di aeroplani. (https://flightradar.live/it/ )Ma l’avvento degli aerei direi che è più che legittimato, visto che sono i responsabili di spostamenti di larga tratta in tempi rapidi. E non dimentichiamoci che sono sottoposti a ferree manutenzioni. Ma queste saranno valide anche per le auto volanti? Se il loro uso servirà a ordinare il traffico urbano, sarà riservato il tempo necessario alla verifica della loro sicurezza, pur essendo tali veicoli aerei chiamati a ricoprire un servizio frenetico ed impaziente nella vita cittadina?




Quello dei trasporti non è certamente l’unico settore in cui interviene ed agisce l’Intelligenza Artificiale. L’AI è infatti ben presente anche su internet. Invero in rete si affacciano volti perfetti, ma di persone che non esistono, creati appunto dall’Intelligenza Artificiale, usati per la maggior parte dei casi a scopo commerciale, talvolta anche per spionaggio. In particolare sul web circolano foto create da algoritmi, che si servono delle stesse tecnologie alla base dei big fake, volti di persone famose, sfruttate per campagne pubblicitarie, inserite all’interno di video. È il caso, per esempio, di Joe Biden, la cui faccia è stata letteralmente incollata sul corpo di Capitan American, nella famosa sequenza di Avengers: Endgame. Propaganda all’insegna dell’influenza dell’opinione pubblica tramite un collage tra icone culturali e personaggi di tendenza nel mondo odierno. Ma non è finita qui: sui social, dietro ai volti finti, si nascondo in alcuni casi malintenzionati veri. Difatti nel 2019 l’Associated Press ha smascherato una donna che su LinkedIn vantava connessioni a Washington e con membri del mondo di Intelligence: accusata di spionaggio. Infine, negli ultimi tempi, sia Twitter sia Facebook hanno dichiarato di aver rimosso gruppi di utenti fasulli impegnati in campagne di disinformazione e di molestie nei confronti di attivisti. Il caso più clamoroso, a luglio, scoperchiato dal Daily Beast, riguarda alcuni articoli pubblicati online da parte di individui totalmente inventati. Ma riuscirà l’Intelligenza artificiale a metterci al riparo dai suoi stessi guai?



Ancora più inquietante è invece l’uso della tecnologia al fine di mantenere l’ordine sociale stabile. Basti pensare alla Cina, il cui regime dispone di un’immensa e capillare rete di sorveglianza come copertura delle città, conferendo alle forze dell’ordine poteri quasi illimitati. Le autorità sono diventate una sorta di custode indiscusso di dati personali, compresi quelli biometrici, di tutti quasi gli 1,4 miliardi di persone del paese. E ancora conversazioni via smartphone, espressioni del volto e spostamenti vengono controllati costantemente attraverso un potente sistema di tecnologie gestite da applicazioni di Intelligenza Artificiale: si afferma così un grande apparato di spionaggio che agisce a discapito della privacy. A tal proposito la società di sicurezza Comparitech ha stilato una graduatoria basata sul numero di telecamere a circuito chiuso ogni 1.000 persone: la Cina detiene il primato con otto delle prime 10 città più sorvegliate al mondo, mentre l’Italia si piazza a metà classifica. Perciò anche nel mondo occidentale sarebbe errato pensare di essere esenti da controlli di massa, sia tramite video sorveglianza, sia per mezzo di consensi di cookie, trattamento dei dati e riconoscimento facciale. Quest’ultimo, secondo gli esperti, si spingerà ancora oltre: assisteremo alla comparsa di sistemi in grado di identificare le nostre emozioni. Se sarà così, allora ci ritroveremo disarmati di fronte all’impossibilità di nascondere nella propria intimità un segreto tormentato, un amore insperato, una gioia infinita, una rabbia inesplosa. Tale ipotesi futuristica spegne ed uccide la facoltà dell’uomo di avvalersi e di preservare uno spazio interiore. Questa privacy è fondamentale. Riflettete su quanto oro (ogni emozione, sogno o ideale che cullate nell’animo fanno parte di un patrimonio umano) brilla dentro di voi e su quanta sofferenza e fatica impiegate per salvaguardarlo. E poi pensate all’avvento di una tecnologia abusiva e insulsa, in grado di estrarre dalla vostra miniera tutto l’oro. Conclusione: rimarrà un senso di smarrimento, servo di chi si è arricchito e agghindato del vostro metallo più prezioso. E questo non è un invito a difendere il vostro oro all’interno di una bolla, ma di tirarlo fuori quando e se lo vorrete tirare, secondo la vostra scelta e non per conto di un sistema tecnologico invasivo.

Homo faber fortunae suae. Uomo artefice del suo destino. Il futuro rispecchierà le scelte di oggi: sarà fondamentale sfruttare in modo corretto quanto di buono costruito. Come dichiarava Albert Einstein, “Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità. Il mondo sarà allora popolato da una generazione di idioti”... scusate stavo scherzando. Ho solo vent’anni e sono digitale.

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