“Suonavamo perché l’oceano è grande, e fa paura, suonavamo perché la gente non sentisse passare il tempo, e si dimenticasse dov’era, e chi era. Suonavamo per farli ballare, perché se balli non puoi morire, e ti senti Dio”.
“[…] alla fine, d’improvviso, vedevi il mare. Non l’aveva mai visto prima, lui. Ne era rimasto fulminato. L’aveva salvato, a voler credere a quello che diceva. Diceva: ‹‹È come un urlo gigantesco che grida e grida, e quello che grida è: banda di cornuti, la vita è una cosa immensa, lo volete capire o no? Immensa››”.
Quello che si compie con questo libro è un piccolo viaggio, un po’ come quelli che il protagonista Novecento compie per tutta la vita, dall’America all’Europa e ritorno, avanti e indietro, su e giù. Per il modo in cui è scritto, l’incredibile capacità di sfondare ogni porta con le parole, l’originalità della curiosa storia del pianista che suona solo sull’Oceano (e come suona, soprattutto), e le riflessioni che ne derivano sul mondo, sulle persone, sulla vita e su tutto quello che c’è, questo libriccino si trasforma in un vero e proprio capolavoro.
Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento ricorda molto il Piccolo Principe. La nave è il suo piccolo pianeta, il pianoforte è la sua rosa, che gli permette di scoprire ed esplorare ciò che è realmente necessario. Lo sguardo curioso, stupito, ingenuo e commovente sembra lo stesso ed emoziona allo stesso modo. L’unica differenza che fra i due è che il Piccolo Principe è anche un piccolo esploratore, lascia il suo asteroide (e la sua rosa) e comincia a girovagare per i pianeti suoi vicini, fino ad arrivare poi al pianeta Terra.
Novecento, invece, è un’altra storia. Novecento è ingenuo e stupito, ma è anche indecifrabile. E indecifrabile risulta la sua scelta di non lasciare mai il Virginian: sebbene sia pronto ad andare sulla terra ferma, nel momento in cui ci prova si arresta sulla scaletta e torna indietro. Alla fine del libro si scopre poi il motivo di questa scelta: della terra ferma Novecento non vede la fine, ed è questo ciò che gli fa paura. “La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?”: Novecento non sa vivere in un mondo infinito, perché il mondo che conosce e ha sempre conosciuto è un mondo contenuto tra prua e poppa, contenuto negli 88 tasti del pianoforte. E così Novecento è uno spettatore della vita, non qualcuno che la vive davvero. E merita per questo di essere giudicato, biasimato, criticato? Oppure semplicemente ci mostra i limiti dell’animo umano? Il bisogno che ognuno di noi ha di restare nel proprio posto sicuro? Il dubbio rimane tale, non esiste una regola che spieghi se sia giusto o sbagliato il modo di vivere che Novecento sceglie per sé: “incanta” le sue passioni, o forse, in altri termini, le sopprime, perché abbandonare la sua casa e soddisfare i suoi desideri gli fa troppa paura. D’altro canto, però, se la paura fosse il suo peccato non si spiegherebbe la decisione finale: il Virginian è alla fine della sua vita fra il vecchio e il nuovo mondo e Novecento, senza preoccuparsi della morte che gli spetta, non abbandona la sua casa.
“Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita.
Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi.
Ma io non scenderò, lasciatemi tornare indietro”.
Malinconica, assurda, incomprensibile: così mi è sembrata la fine di questo lungo “monologo”. Eppure, impregnata dell’irresistibile magia propria del nostro protagonista, è una fine profondamente emozionante, che scuote e rivela che si può percepire disperazione anche nella totale calma, si può percepire vita anche dove non c’è mai stata davvero.
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