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corradociampi

La lezione americana

L'idea che qualcuno potesse, armi in pugno, recarsi a Washington e violare i luoghi del potere degli Stati Uniti è un'idea che fino a questa settimana era appartenuta solo al mondo del cinema e alle pagine di storia: l'ultima volta che qualcuno aveva assalito Washington era stata nel 1814, quando gli inglesi avevano distrutto il Campidoglio degli Stati Uniti durante la guerra del 1812.

Le immagini che hanno fatto il giro del mondo in pochi secondi sono di una straordinarietà sconvolgente, perché rappresentano il collasso del prestigio che i luoghi del potere degli Stati Uniti, anche grazie alle celebrazioni cinematografiche e televisive, hanno sempre saputo esercitare sul pubblico: un'immagine sbriciolata da piedi che calpestavano, oltre ai pavimenti di marmo, anche la dignità di cui gli americani sono sempre andati più che fieri.

Vedere manipoli di fanatici irrompere negli eleganti saloni e nei corridoi ed occupare il Senato degli Stati Uniti ha avuto un impatto sull'opinione pubblica mondiale incalcolabile: il tutto, è bene ricordarlo, è la conseguenza di due mesi di avvelenamento costante circa il risultato delle elezioni.

Ridurre il gesto del sei gennaio alla semplice polemica post elettorale sarebbe tuttavia riduttivo e, soprattutto, sbagliato: ad aizzare le folle, è bene dirlo chiaro e tondo, è stato un presidente che, nei suoi quattro anni di mandato, non ha mai mancato di attaccare i fondamenti dello stato democratico come la separazione dei poteri e l'indipendenza della magistratura, non ha mai perso occasione per ridicolizzare ed insultare i media "mainstream" colpevoli della diffusione di notizie antiamericane e fake news, ha strizzato l'occhio ad associazioni potenti come la lobby delle armi.

Tra tutte le colpe politiche attribuibili a Trump però, forse quella che più direttamente può spiegare come si sia arrivati all'assalto del Campidoglio è il continuo richiamo alle teorie del complotto nella sua amministrazione, delle quali il Presidente si è servito non tanto per convinzione quanto per convenienza, consapevole del suo prestigio enorme su certa parte della società americana anche grazie all'opera di mitizzazione della sua figura fatta su diversi canali e forum dediti alla diffusione di teorie complottistiche.

Nel corso del suo mandato non è stato raro che il presidente Trump facesse riferimento, in maniera più o meno vaga, a teorie assurde diffuse nei meandri più tremendi del web, linea di condotta che è stata seguita nei giorni frenetici successivi alle elezioni, con l'ovvia contestazione pressoché immediata dei risultati, e nei due mesi che lo hanno accompagnato al sei di gennaio.

L'assalto al Campidoglio non è stato condotto dall'esercito, e quindi risulta forse eccessivo parlare di golpe, ma da manipoli di fanatici accecati dalla fedeltà assoluta al presidente, imbevuti di teorie cospirazioniste e storditi dalle assurdità del web, vittime inconsapevoli della degenerazione dell'informazione e dell'assenza di scrupoli di Trump: egli ha continuato a ripetere fino all'ossessione di brogli infondati, aizzando la parte peggiore del suo elettorato che alla sua chiamata ha risposto con un fervore che mi ha ricordato quello con il quale i fedeli partirono per la Terrasanta nel 1096 dopo la chiamata alle armi del Papa, ma forse qui sono io che sto esagerando.

L'attacco al Campidoglio ha mostrato, con una concretezza che mai ci si sarebbe aspettati realmente, quanto lontano possa portare la disinformazione e la politica che di questa si nutre e di quanto pericolosa possa essere una persona radicalizzata alla menzogna, completamente priva di capacità critica e fedelissimo braccio operativo di chi di quella disinformazione si serve per i propri scopi.

Le immagini di Trump che, in tutta tranquillità e con in sottofondo la canzone "Gloria", osserva il caos scatenato dalle sue milizie ne sono l'esempio perfetto, perché mentre i succubi fanno il lavoro sporco, il lavoro nel quale ci si può far male davvero (sono cinque le vittime della follia del sei gennaio) l'eroe osannato, il leader amato e coraggioso che combatte contro il deep state e contro tutte le creazioni perverse della retorica, se ne stava tranquillo a vedere l'esito degli eventi, circondato da collaboratori e familiari, che dopo quanto avvenuto, l'imbarazzo e l'incredulità che hanno seguito l'assalto, pian piano hanno cominciato ad abbandonarlo, ora che la sua sconfitta ha assunto i toni di una disfatta e che le voci che lo ritengono responsabile del caos e della violenza si moltiplicano.

Ciò che è avvenuto mercoledì è la dimostrazione di cosa il potere basato sulla paura, sulla costante e martellante opposizione a qualcuno, sulla ricerca del nemico a tutti i costi, sull'indifferenza nella scelta delle parole e sul disprezzo arrogante e violento dell'altro può causare, il tutto amalgamato dall'orrido indottrinamento costruito su bugie.

Non erano manifestanti.

Non erano patrioti.

Chiamateli con il loro nome: radicalizzati.


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