Non voglio dimostrare niente, voglio mostrare.
Federico Fellini
Dopo La Dolce Vita niente è stato più lo stesso: circa tre ore felliniane di eventi che rendono la pellicola quasi plotless, che la modellano con le mani del Neorealismo per deformarla fino alla poesia. E’ questo un film che in pochi hanno visto per intero. Tutti conoscono l’indimenticabile scena della fontana: “Marcello, come here! Hurry up!”, dice la divina Anita Ekberg che, in tutta la sua bellezza, invita Marcello Mastroianni a tuffarsi nella fontana di Trevi assieme a lei.
La Dolce Vita è anche questo, ma non solo questo. Si tratta di un film perfetto sotto tutti i punti di vista, dalla fotografia all’impeccabile (e rivoluzionaria per l’epoca) sceneggiatura, fino agli attori, il cui fascino non può che rimanere impresso sulla retina dello spettatore per un po’. Indimenticabili, tra tutti, come si è detto, lo charme di Mastroianni e la sensualità quasi sconvolgente della Ekberg, ma non da meno sono la Aimée e la Fourneaux e altrettanto colpisce la figura ‘gotica’ di Alain Cuny. La pellicola, capolavoro assoluto - insieme ad “Amarcord” e “Otto e mezzo” - di Federico Fellini, destò scalpore all’epoca, tanto che venne vietata ai minori di 18 anni. Questo perché si trattava di qualcosa di tanto moderno da poter essere paragonabile a Marty McFly che suona e balla Johnny B. Goode all’”Incanto sotto il Mare”, anno 1955. Dialoghi che fluttuano tra la ‘assurda’, picassiana e pirandelliana cronaca giornalistica (basti citare il Cristo trasportato in elicottero o la messa in scena della falsa apparizione della madonna, oltre al caso Wilma Montesi) e la mondanità altrettanto assurda nel suo essere senza freni, fastosa e allo stesso tempo borderline oserei dire (oltre al bagno della diva nella Fontana di Trevi, si menzionino le scazzottate coi paparazzi e la routine frivola in Via Veneto). E’ La Dolce Vita prima di tutto ritratto di quell’epoca, ma soprattutto ritratto di una fetta di quotidianità atipica, in quanto dettata dal lusso, dall’ozio, anche dal sesso, dalla droga, dalla perdizione. E in particolar modo da una implacabile e decadente noia di vivere - ennui - e un appena accennato, ma lampante spleen baudelairiano. Il protagonista è un giornalista, Marcello Rubini (Mastroianni), spettatore, complice e testimone di un mondo circense, caotico, volgare, dove la pigrizia - suo alibi - è noia che si trasforma in cupio dissolvi. Basti citare il dialogo con la fidanzata Emma:
“ Tu dici sempre che sono io la pazza, che vivo come in sogno, che sono fuori dalla realtà... ma sei tu, sei tu che sei fuori strada! Ma non capisci che la cosa più importante della vita tu l'hai già trovata? Una donna che ti vuol bene sul serio, che darebbe la tua vita per te come se fossi l'unico al mondo! Tu sciupi tutto, sei sempre inquieto, sempre scontento. [salendo in macchina e avvicinandosi a Marcello] Marcello, quando due persone si vogliono bene, tutto il resto non conta. Di che cosa vuoi aver paura? Dì.”
“Di te. Del tuo egoismo. Dello squallore desolante dei tuoi ideali. Non lo vedi che quello che mi proponi è una vita da lombrico, non sai parlare d'altro che di cucine e di camere da letto! Ma un uomo che accetta di vivere così, lo capisci che è un uomo finito?! È veramente un verme! Io non ci credo a questo tuo amore aggressivo, vischioso, materno: non lo voglio, non mi serve! Questo non è amore, è abbrutimento! Come te lo devo dire che non posso vivere così?! (..)”
Marcello gli ideali non li vuole, una vita ‘tranquilla’ non gli basta. E questo è anche una riduzione in scala di quell'Italia di fine anni ’50 in pieno boom economico che ha già al suo interno i germi dell’autodistruzione, dilaniata tra il progresso e la tradizione. Roma “è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene”, ha la malinconia di un circo prima o dopo lo spettacolo, dove regnano piume, mormorii, mozziconi, fiori finti. Ed è proprio nella città eterna che ogni giorno si sveglia assonnata perché insonne che emergono i tormenti, i demoni, mentre sul ritmo del mambo di “Patricia” (Nino Rota) si danza e si canta, senza accorgersi dell’imminente precipizio sul nulla, in un viaggio spazio-temporale che dai nightclub romani conduce alla spiaggia di Fregene. La dolce vita non è che un flusso di coscienza woolfiano fatto dell’apatia, della mediocrità, della mancanza di principi di ogni singolo personaggio di contorno. E tra questi, come si è detto, quei paparazzi avvoltoi che sembrano essere un embrionale videocamera da Reality Show, dove l’intimità diventa qualcosa di pubblico e non esistono veli alcuni. Poi gli aristocratici romani perdigiorno, il sottoproletariato che pretende una scalata sociale, mentre la ricca borghesia si diverte coi suoi vizi discutibili, mostrando la propria costernazione in orge, spogliarelli e chi più ne ha più ne metta. Poi i personaggi principali: Emma (Yvonne Furneaux), fidanzata possessiva e provinciale, disperata nel sapere che il suo uomo non s’accontenta,che ‘ha paura’; poi Maddalena (Anouk Aimée), l’amante di una notte pietrificata nel suo male di vivere - colei che dice a Marcello di non riuscire a nascondersi nella ‘giungla’ romana - ; l’amico Steiner, un intellettuale grottesco, musicista, il cui cane nero incombe come un presagio. E ancora: la sessualità non ancora spenta, senile, del padre di Marcello e l’irruzione della morte, che non fanno che creare un distacco definitivo tra le aspirazioni artistiche del giornalista-protagonista e un presente più che mai contigente, pronto a disfarsi, in cui tutto è profano, laico, quasi sacrilego. Infine Paolina, la controparte di Sylvia (la Ekberg, femme fatale), al contrario di lei diafana, dolce, delicata - donna angelica-, che prova a mimare una danza sulla spiaggia nella scena finale. Marcello che si inginocchia sulla sabbia, incapace di sentire la sua voce. C’è troppo rumore. Non sente neanche la voce del suo fallimento, Marcello, e così sceglie il nulla, si abbandona al nulla, lascia che esso lo divori. Forse sceglie la perdizione a cui era appena fuggito, incapace di prendere in mano la sua vita e di trasformarla, di redimerla.
E così si chiude la pellicola, in una luce sognante, con un saluto al fuoricampo, in quello che sembra un momento eterno e che è in realtà forse l’abisso che avvolge ognuno di noi quando ci troviamo a prendere delle scelte.
Spesso la vita fa troppo rumore, sembra dirci Fellini, per sentire la voce dentro di noi sussurrarci che dobbiamo fare. Questa è la dolce vita: lo smarrimento interiore, l’inerzia, lo sgomento che non mostriamo quando ci abbandoniamo completamente al piacere dei sensi.
Anche Steiner l’aveva detto a Marcello, dopo tutto:
“Qualche volta la notte questa oscurità, questo silenzio mi pesano. È la pace che mi fa paura, temo la pace più di ogni altra cosa: mi sembra che sia soltanto un'apparenza e che nasconda l'inferno. Penso a cosa vedranno i miei figli domani, "il mondo sarà meraviglioso" dicono, ma da che punto di vista se basta uno squillo di telefono ad annunciare la fine di tutto. Bisognerebbe vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell'armonia che c'è nell'opera d'arte riuscita, in quell'ordine incantato... Dovremmo riuscire ad amarci tanto da vivere fuori del tempo, distaccati... [ride brevemente] Distaccati…”
La dolce vita...
Si era agli albori degli anni ‘60 allora e si percepiva un certo fermento: sembrava che già si sapesse che il decennio che sarebbe venuto poi sarebbe stato un fiume di denaro e posti di lavoro e che il decennio dopo ancora sarebbe stato dettato dalla parola ‘rivoluzione’. E, a proposito di rivoluzione, questo ha fatto per il cinema La Dolce Vita: la rivoluzione. Nella pellicola tutto è sogno, un’illusione onirica non-stop che si frantuma miseramente sul lido di Fregene, in quella scena finale che sembra stata dipinta da Gauguin nel suo ultimo soggiorno in Polinesia.
Tanti sarebbero i possibili riferimenti religiosi (o meglio, spirituali che si voglia dire) nel film. Ecco un link utile per scoprirli: https://movieplayer.it/articoli/la-dolce-vita-analisi-spiegazione-finale_22379/
Comments