Lo studio dell’arte è pure analisi iconologica di tutti i linguaggi figurativi possibili all’interno di un’opera stessa, dalle espressioni più scontate a quelle più ancestrali, dai gesti più miti a quelli più affabulatori sino ad arrivare all’indagine minuziosa ed anatomica di qualsiasi dettaglio che possa in qualche modo ricondurre a qualcos’altro o che sia nella sua semplicità (che non significa ingenuità di contenuto) mediatore di significati più profondi, o meglio, più nascosti. A chiunque si voglia cimentare in questo esercizio metodico si debba consigliare l’analisi degli artisti ferraresi rinascimentali, dal Francesco del Cossa al Cosmé Tura, portatori di sensi celati talmente profondi che alle volte si pensa, come propose poi il grande critico e storico dell’arte Federico Zeri, che i loro contenuti non possano essere stati partoriti semplicemente dal loro intelletto ma che ci siano dietro pure umanisti, teologi e filosofi. Guardare le loro opere, studiarle con cura e leggerle attentamente significa aprire un mondo altro, pregno di concetti, quasi tenebroso, quanto decrittare un messaggio segreto. Aby Warburg ad esempio si avventurò nello studio dell’astrologia in “Arte e astrologia nel Palazzo Schifanoia di Ferrara”, sviscerando contenuti che oltrepassano il campo storico-artistico stesso. Warburg era uno storico dell’arte ma non disdegnava lo studio della psicanalisi, della sociologia e dell’antropologia. Ed è qui che oltremodo vorrei giungere prima di cimentarmi pure io. Se si vuole fare l’arte in un senso sensato allora è conveniente anche guardare le cose da una prospettiva più ampia. Andare oltre l’opera che si ha di fronte abbracciando pure studi che all’apparenza non si confanno ad uno storico dell’arte è sinonimo di conoscenza approfondita della cultura umana. Ad oggi anche la matematica studia l’arte nelle sue espressioni di simmetria, a proposito di calcoli proporzionali, è quindi giusto e lecito che anche gli storici dell’arte si liberino dalle loro torri d’avorio. Ma mai eludere tale disciplina dall’analisi empirica e più analitica dell’opera stessa, si deve sempre partire dal prodotto artistico e poi all’occorrenza divagare sensatamente, senza parlare di idee artefatte e volanti, imitazioni di una pseudo-filosofia da baraccone proposta assurdamente da chi di competenza (spesso nemmeno quella) ha il dovere di presentare in modo mediatico l’arte a chi competenza non ha. Oggi c’è profondo distacco tra mondo accademico e mondo mediatico, si inculca potentemente che l’insegnamento dell’arte proposto dalle televisioni sia quello giusto, in realtà è solo un giuoco di luci e lustrini sinonimo del perverso processo d’artification totale: “[…]una sorta di Wikipedia generalizzata, schiacciata su descrizioni casuali, notizie esterne, aneddotica, commenti approssimativi, o peggio bavardage pseudo-letterario che usa l’opera come puro pretesto, invece di mettersi al suo servizio, di aiutarci a capirla e apprezzarla meglio”. Così scrive Andrea De Marchi, storico dell’arte e professore all’università di Firenze. Mi scuso anzitutto però, mio dovere primario, dell’accorato pamphlet che qui ho appena proposto, che se momentaneamente non potrebbe interessare il corso del modesto e sommesso studio non può però non precedere un’analisi che paragoni più discipline: in questo caso la storia dell’arte, la psicanalisi e in parte pure l’antropologia. E’ vantaggioso, a mo’ di mantra oserei dire, ricordarsi che quando si va ad integrare tra loro diversi ambiti si deve sempre partire da basi certe, essere solidamente convinti degli obbiettivi a cui si mira e a cui si vuole arrivare. Io studio storia dell’arte ed in quella mi crogiolo soddisfatto, ma son sicuro che dopo mi si potrà imputare di lassismo, di mancanza di sicurezze, mi si accuserà d’aver portato al tavolo concetti e proposte talmente ardite che se precedentemente mi aizzavo contro le idee artefatte e volanti campate in aria adesso le prendo come metodo, come dottrina, come colui che predica in un modo ed agisce in un altro. E’ vero a ben dire, sto facendo forse quello che non dovrei fare, ma lo faccio perché queste mie idee sono forse un carabattolo che mi assilla da un po’ di tempo, non molto avrete già inteso, sennò avrei avuto la buona decenza di non pubblicarle. Ma gli impulsi si sa vincono su tutto, posso solo dirvi di non prendermi a esempio. E dopo questo scabroso mea culpa si può cominciare.
E’ proprio dal Giotto della Scrovegni a Padova che desidero iniziare, qui tra il 1303 ed il 1305 il pittore fiorentino dette il meglio di sé, arrivando a figurare un vastissimo e complesso ciclo con annessi complicati, ma tuttavia puliti, coretti detti “prospettici” che mostrarono all’Italia intera (come se non ne avesse avuto già prova) la maestria di quel nuovo, eclettico ma solido pittore. L’Offner ha sempre parlato della Scrovegni con tono perentorio e devoto; vedendo in quella il consolidamento della idea giottesca per eccellenza, nonchè la sua massima attuazione, non seppe però riconoscere anche le screziature formative di un giovane Giotto ad Assisi nel suo articolo pubblicato sul Burlington Magazine intitolato “Giotto-non Giotto”. Come se quel maestro fosse sempre stato un’idea più che una mano, e quindi non si fosse mai rinnovato, cosa che in verità Giotto fece sempre. Ma, se dovessi spezzare una lancia a favore dell’Offner, si potrebbe ben dire però che se il Giotto-Scrovegni non è stato l’ultimo “modello” di Giotto, è stato però quello che più di tutti dette vita a movimenti che da lui dipendevano: come i Riminesi, o sennò i bolognesi, quest’ultimi un giottismo di seconda mano. Ma non è di questo che intendo trattare ora e nemmeno dell’evoluzione in itinere dello stile giottesco, la mia finalità è quella d’andare a prendere adesso una scena della vita di Cristo, continuamente riproposta nella storia dell’arte a tema cristiano, tanto più presentata assiduamente dal mondo costantinopolitano perché facente parte del dodekaorton (le dodici feste ortodosse). La scena in questione è la Presentazione al tempio o Purificazione di Maria (fig. 1), in cui la madre offre il figlio (Gesù) a Dio presentandolo appunto al tempio tramite l’affidamento all’anziano vecchione Simeone, rigorosamente fatto santo. Rito anche oggi condotto dall’ebraismo, prescritto nel libro dell’Esodo (13,2.11-16), venne compiuto esattamente quaranta giorni dopo la nascita di Cristo e pervenutoci solamente dal vangelo di Luca (2,22-39) che riporta queste frasi:
22 Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, 23 come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; 24 e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore.
25 Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele; 26 lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. 27 Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, 28 lo prese tra le braccia e benedisse Dio: […]
Nessun altro evangelista affatto si adopera nella descrizione di questo singolare evento, che ebbe fama assai notevole nel corso del passato proprio perché qui si riconosce la natura messianica del piccolo Cristo, Giotto infatti mette il nimbo crucigero sulla testina del bambino Gesù, sullo stagno dorato. Questa tuttavia è una tradizione figurativa che ha origini antichissime, ma che qui prefigura per l’appunto il sacrificio sulla croce, un po’ come quelle miniature ottoniane (e non solo) che ficcavano Cristo neonato in un sarcofago in cambio d’una mangiatoia. Dietro Maria che prolunga le braccia per prendersi in braccio l’infante sgambettante ci troviamo Giuseppe che tiene in mano le due tortore proprio come ci racconta Luca. Dietro Giuseppe una figura puramente gratuita, come piaceva fare a Giotto, che assiste come comparsa cinematografica al dispiegarsi della santa scena. Su in alto un angelo-gnomo che scende spinto dal suo inconfondibile vaporetto di nuvole impugna una verga dorata con un trifoglio, simbolo della trinità. L’ultima a destra è la sacerdotessa Anna, di cui Luca ci parla più avanti, sempre invasata di Dio che qui riconosce il Messia dispiegando un cartiglio. Al centro come ho già annunziato Simeone che regge Cristo, con però le mani velate da un mantello onde evitare qualsiasi contatto col piccoletto. Ed è qui che mi impunto, che un po’ mi sorprendo, voi inoltre avreste subito colto l’incomprensione che ho appena scritto: ovvero la certa sicurezza con cui io dico che Simeone si sia coperto entrambe le braccia per non toccare Gesù. Gli altri simboli come le tortore, o le altre figure come Anna, ci sono ben documentate dagli scritti. I loro atteggiamenti e i loro sensi sono ben riconducibili ad una certa dottrina e morale che sebbene può sembrare ostica ad un occhio meno preparato, è però un qualcosa il cui significato ci appare chiaro. Le mani velate del vecchio Simeone tuttavia sono a noi ignote, o meglio, il loro rilievo figurativo all’interno della scena è a noi oscuro. E con che franchezza io dica ciò può apparire come un sentore di mera retorica, ma se andiamo a paragonare la Presentazione al tempio di Giotto con altre della stessa sorta, potremmo notare con una certa tranquillità che le mani velate appaiano e scompaiano alcune volte, e andando in là negli anni si dileguino come un vocabolo aulico di cui non si riconosce più il significato e di cui non si sente più nemmeno l’uso. La Presentazione al tempio di Nicola Pisano (fig.2) nel pulpito del Battistero di Pisa, realizzato tra il 1255 ed il 1260, quindi prima della Scrovegni di Giotto, concepisce un Simeone che regge il bambino (oggi ahimè acefalo, anzi privo di busto) direttamente a contatto con le coscette turgide e carnose di Gesù che verosimilmente si doveva protendere alla madre, non a suo agio nelle braccia di quel vecchio barbone. Nicola Pisano sembra dimenticare le mani velate, le mani nerborute nude stringono con energia il piccolo Cristo.
E se prendiamo il mosaico (fig.3) del Pietro Cavallini in Santa Maria in Trastevere del 1295 c. possiamo notare con che sodezza ancora il vecchio Simeone si intestardisce nel velarsi le mani, per giunta con un aplomb uguale a Giotto, e si badi bene, questo aplomb ci sarà sempre come ripetizione di un linguaggio che mi risulta essere tipico dei simboli.
Ambrogio Lorenzetti nel 1342 (fig. 4) realizza ancora un Simeone con il velo a coprire le braccia, mentre si dimentica però le due colombine che nelle altre opere analizzate erano ben presenti. Andando più in avanti nel tempo noteremo che già nel Mantegna (fig. 5) nel 1455 c., dove il bimbo piagnone è fasciato a foggia di mummia, Maria e Simeone si passano Gesù senza nessun’accortezza. Lo stesso accade per il Beato Angelico (fig. 6) tra il 1438 ed il 1440. Da qui in avanti il velo sparirà completamente, se non per alcuni casi ed uno di questi è proprio Rutilio Manetti (fig. 7) in una sua opera del 1620 c., in cui il modesto velo sotto il bimbo cicciotto è solamente decorativo, corto, niente a che vedere con quello lungo di Giotto e degli altri quivi proposti. Ciò significa allora che nel corso del tempo, soprattutto dal quattrocento in poi, il velo di Simeone comincia a risultare obsoleto, gli artisti ed i fruitori non ne riconoscono più il significato. Le colombine restano continuamente, la sacerdotessa Anna compare senza fine, il mantello che copre le mani di Simeone svanisce senza un perché. Cosa significa in realtà tale simbolo? E come mai precedentemente ho affermato che Simeone vuole evitare qualsiasi diretto contatto con quel bambino sacro? Tutto questo sarà spiegato in un prossimo scritto. Non andrò però a rivelarvi il perché della scomparsa di questo espediente figurativo, questo ora non potrei saperlo, ma di contro posso comunicarvi che esistono simboli che viaggiano nelle epoche senza mai modificarsi; Aby Warburg (di cui ho parlato all’inizio) scoprì sul jubé di una chiesa protestante di Lüdingworth un Laocoonte classico, finito in una chiesa tedesca dell’estremo nord, vicino l’Elba. Le mani velate sono un linguaggio che ha oltrepassato molti secoli e non solo nella Presentazione al Tempio.
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