Recensione del film “Berlinguer ti voglio bene”
“Noi semo quella razza che un sta troppo bene, che di giorno sarta ' fossi e la sera le cene”
Uno dei film che più è stato ingiustamente sottovalutato nel mondo cinematografico italiano è “Berlinguer ti voglio bene”, scritto da Roberto Benigni e Giuseppe Bertolucci, di genere satirico grottesco del 1977. Ambientato nella zona rurale di Prato narra le vicissitudini di un giovane sottoproletario toscano chiamato Mario Cioni (impersonato da Benigni), il quale soffre di alcuni evidenti problemi mentali, probabilmente causati da una madre che lo detesta, dalla morte del padre e da un contesto sociale deleterio, caratterizzato da volgarità e da un’ignoranza generale; un mondo raramente portato sul grande schermo, per paura della reazione del pubblico. I dialoghi sono un simposio di doppi sensi a sfondo sessuale, parolacce di ogni tipo e imprecazioni, donando al film un disarmante realismo che ci fa domandare se il regista sia Bertolucci o la reincarnazione di Verga. Viene infatti rappresentata la vita provinciale toscana, le tombole dei circoli comunisti (Bertolucci tocca anche il tema del primo femminismo tramite il convegno chiamato “pole la donna permettersi di pareggiare co’ l’omo?”, dipingendo in modo satirico la mentalità contadina del Novecento) fino alla vita politica di paese, piena di false notizie e false speranze. Ma chi è Mario Cioni? “I’ Cioni” è un operaio con un misero stipendio che vive in un casolare campagnolo toscano insieme alla madre, la quale lo rigetta come figlio, apostrofandogli contro in numerose occasioni con frasi tipo questa: “Tu sei il soffrimento della mi' giornata, il sogno brutto della mi' nottata! […] Mario tu fa’ schifo!” Ma il rapporto tra i due è molto particolare, infatti Mario ha in numerose occasioni comportamenti infantili (nonostante abbia venticinque anni), nascondendosi sotto il tavolo, balbettando come un bambino (il personaggio non soffre di balbuzie, ma ha solo grande difficoltà nel parlare, non conoscendo le parole adeguate al contesto), avendo una tremenda paura dei fulmini e facendosi imboccare durante i pasti dalla madre. La causa di questi comportamenti è sicuramente da rintracciare negli atteggiamenti della mamma (interpretata da Alida Valli, la stessa che recita Miss Tanner nel capolavoro di Dario Argento “Suspiria”) che nonostante provi ribrezzo per lui, lo tiene ancora come un bambino dipendente da lei, causandogli profondi traumi silenziosi nella sua psiche. La compagnia dei suoi amici muratori certamente non lo aiuta a maturare; sono persone di basso spessore sociale e morale, tanto che uno di loro, “I’ Bozzone” (Carlo Monni), dopo aver vinto ad una partita a carte contro il nostro povero protagonista gli chiede come trofeo o 4000 lire o di andare a letto con sua madre. Il povero Cioni, che non possiede neanche pochi spiccioli, si vede violato il simbolo della sua creazione (come dipinse Courbert nella sua dissacrante opera “l’origine du monde”) e la beffa non finisce qua: i due si innamoreranno arrivando a formare una famiglia, intrappolando Mario nella sua orribile vita. Due particolari lo illuderanno di aver trovato una via di fuga dalla sua gabbia mentale: la fede in Berlinguer e un volatile incontro con due ragazze, figlie culturali della rivoluzione del 1968. La prima citata è capace di continuare a tenere acceso nella mente del personaggio il barlume della speranza che tutto possa cambiare, che gli ultimi diventino i primi, che il comunismo possa trionfare. Qui un estratto che ben rende questo messaggio: GNORANTE: ”Quello che mi preoccupa a me, l'è Berlinguer. Recentemente mi pare’a un po' lento.” CIONI: “Berlinguer? Berlinguer icchè? Berlinguer unn’è lento, Gnorante, Berlinguer e ci vo' bene!”
Le due ragazze invece, Ester e Marta, le quali gli daranno un passaggio in macchina per raggiungere casa, saranno una piccola finestra aperta verso il mondo reale e sono portatori di un forte simbolismo. Ester gli regala infatti una conchiglia con cui poter “sentire il mare” e gli scrive il suo numero di telefono sopra il palmo di una mano; mentre il numero verrà cancellato dalla “Mammina” per averlo confuso per sporcizia, la conchiglia sarà per lui una chiave immaginaria che gli permetterà di accedere al mondo parallelo dove lui ha potuto richiamarla, e chissà, trovare l’amore. Ma questo resterà una vana illusione, un dolce conforto irrealizzabile, rimanendo immerso nel dolore della sua vita e nel disonore provocatogli da Bozzone. Questo capolavoro degli anni settanta è una poesia cinematografica, i “Fiori del Male” del cinema toscano, e difficilmente un altro regista porterà in scena in modo così sublime la goliardia toscana. Non vi resta altro che godere di questa dannata opera tragicomica, e perché no, ringraziare Benigni di essere toscano.
EMANUELE NESTI
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