L’elezione del Presidente della Repubblica è disciplinata dall’articolo 83 della Costituzione e da norme consuetudinarie che vedono riunirsi il Parlamento in seduta comune (Camera e Senato), a cui si aggiungono tre delegati per regione (uno, nel caso della Valle d’Aosta) eletti dai rispettivi consigli regionali. Il voto è segreto e la maggioranza necessaria a decretare l’elezione è di due terzi per i primi tre scrutini, mentre dal quarto in poi è sufficiente avere la metà più uno dei consensi.
In questi giorni si parla e si è parlato tanto dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica Italiana e se trovare un nome comune è così difficile, è sia perché ogni partito ha aspettative diverse dalla carica più alta dello Stato, sia perché dietro a tale nomina si celano intrighi di Palazzo che sono tipici della storia italiana.
L’affermazione è facilmente dimostrabile compiendo un excursus nella storia dei precedenti Capi di Stato dalla caduta del fascismo in poi.
1946-1948: Enrico De Nicola
Dopo l’arresto di Mussolini il 25 luglio 1943, l’affidamento del governo a un fedelissimo del Re, Pietro Badoglio, che fuggì in seguito alla firma della resa incondizionata gettando l’esercito e la popolazione nel caos, i partiti riuniti sotto la sigla dei Comitati di Liberazione Nazionale chiesero una revisione politica del governo che venne così affidato a Ivanoe Bonomi in continuità con quanto avvenuto prima della parentesi fascista. L’occupazione nazista nel centro-nord diede avvio alla fase della resistenza che durò fino all’aprile 1945 e in cui ebbe un ruolo significativo il Partito d’Azione, motivo per il quale il governo successivo venne affidata al suo esponente Ferruccio Parri e, successivamente, al leader della neonata Democrazia Cristiana, erede dell’ex partito dei cattolici, Alcide de Gasperi. Il primo governo a guida DC capì immediatamente che era necessario decidere la forma di stato da dare all’Italia e, in seguito al pronunciamento degli italiani al referendum del 1946 che vide la vittoria della Repubblica con una percentuale del 53% e alla conseguente abdicazione del Re Umberto II, il governo tripartitico che si formò elesse un capo di Stato provvisorio, Enrico de Nicola.
De Nicola era un liberale napoletano con forti simpatie monarchiche che avrebbe dovuto tranquillizzare quella parte di opinione pubblica che al referendum si era espressa in favore della monarchia. Laureato in giurisprudenza e impegnato in gioventù nell’attività giornalistica per il Don Marzio, fu Deputato al Parlamento dal 1909 al 1921 e, in seguito all’elezione nel 1924, si rifiutò di giurare e non fu quindi ammesso all’attività parlamentare. Durante il fascismo si ritirò dalla vita politica dedicandosi esclusivamente alla professione forense e rientrò solo dopo la caduta del fascismo. L’1 gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione, assunse il titolo di primo Presidente della Repubblica e, nei suoi due anni di mandato, interpretò il ruolo come un garante discreto e non interventista dell’unità statale, più propenso a consigliare e suggerire soluzioni, anziché assumerle.
1948-1955: Luigi Einaudi
Dopo l’uscita dei partiti di sinistra (socialisti e comunisti) dal governo tripartitico con la DC a seguito della costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi, eredità troppo grande del fascismo per poter essere sopportata, e della richiesta degli aiuti previsti dal Piano Marshall al governo statunitense, De Gasperi varò la formula del centrismo che venne mantenuta anche dopo la vittoria schiacciante della Democrazia Cristiana alle elezioni del 1948. Essa prevedeva la partecipazione di liberali, repubblicani e socialdemocratici accanto alla DC in una formula che doveva stabilizzarsi al centro, ma senza identificarsi nel partito di De Gasperi. Il primo atto del nuovo Parlamento fu quello di eleggere il nuovo Presidente della Repubblica e, per tale ruolo, De Gasperi aveva il suo candidato nel repubblicano Carlo Sforza, ex ministro degli esteri che aveva posizionato l’Italia nella parte occidentale del mondo bipolare e rientrava perfettamente nel disegno centrista perché riconosceva il ruolo dei partiti minori all’interno dell’alleanza. Sforza però non riuscì a convincere la maggioranza parlamentare perché aveva la fama di essere un ateo anticlericale e De Gasperi, cambiò il suo candidato proponendo Luigi Einaudi, liberale e uomo del vecchio mondo in quanto presenti nei governi durante la fase della Costituente, grande economista e con i connotati tipici di Sforza ma con contorni più sfumati. La scelta piacque e l’11 maggio 1948, al quarto scrutinio con 518 voti su 872, venne eletto prestando giuramento il giorno dopo.
Nei primi anni di mandato svolse un ruolo definito “notarile”, con stretta contiguità con la maggioranza e massima discrezione e competenza, stando ben attento a non sconfinare dal suo ruolo istituzionale, ma in seguito alla prima, grave crisi politica e istituzionale italiana nel 1953, con il fallimento della legge elettorale maggioritaria e la morte improvvisa di De Gasperi, prese in mano le redini del Paese affidando il governo a Giuseppe Pelle e instaurando il primo di quelli che verranno poi definiti i “governi del presidente”.
1955-1962: Giovanni Gronchi
Il primo appuntamento importante della seconda legislatura dell’Italia repubblicana fu l’elezione, nel 1955, del nuovo Presidente della Repubblica. La DC aveva il suo candidato ufficiale nel presidente del Senato Cesare Merzagora, figura percepita come più indipendente rispetto agli altri notabili del partito in quanto possedeva un profilo atipico per un esponente della Democrazia Cristiana. Era infatti un uomo proveniente dall’imprenditoria e quindi ben visto sia da Confindustria, che dagli industriali, fatto importante dato il cambiamento che stava avvenendo con l’inizio dell’intervento pubblico dello Stato in alcune imprese. Nonostante delle ottime premesse, Merzagora non fu eletto a causa di una spaccatura interna al partito sulla sua figura che non gli fece superare le prime votazioni; al suo posto si puntò allora sul Presidente della Camera Giovanni Gronchi che trovò invece una solida maggioranza.
Gronchi, pisano di Pontedera, era un esponente di lungo corso del popolarismo, tra i fondatori nel 1919 del Partito Popolare Italiano e sottosegretario all’industria nel primo governo Mussolini passato poi all’opposizione quando i popolari ritirarono il loro sostegno al governo nel 1923 e protagonista della secessione denominata “dell’Aventino”. Gronchi mise tutti d’accordo perché aveva sia un profilo di cattolicesimo sociale di sinistra, aperto a istanze progressiste, sia un passato filo-fascista che lo rendeva gradito ai partiti della nuova destra (monarchici e missini - MSI). Prestò giuramento l’11 maggio 1955 essendo stato eletto pochi giorni prima al quarto scrutinio con 658 voti su 833 e durante la sua presidenza entrarono in funzione la Corte Costituzionale, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e furono approvate altre leggi per dare piena attuazione alla Costituzione. La sua presidenza inaugurò una prassi diversa rispetto ai predecessori: fu un Presidente attivo e incisivo, improntato a dinamicità e autonomia sia in politica italiana che estera.
1962-1964: Antonio Segni
Nel 1956 la denuncia dei crimini di Stalin ad opera del suo successore e la rivolta popolare anticomunista in Ungheria che portò all’occupazione sovietica e a una dura repressione, fu la base per la definitiva separazione dell’alleanza social-comunista e il motivo per cui si iniziò a pensare all’ipotesi di un governo di centro allargato a sinistra con alleanza strategica e funzionale tra PSI, il Partito Socialista Italiano e la DC alla cui guida era nel frattempo subentrato Amintore Fanfani, grande sostenitore dell’ipotesi. L’attivismo di Fanfani produsse però un vasto fronte contrario interno al partito che portò alla sua estromissione dalla segreteria e alla nomina al suo posto, nel 1959, di Aldo Moro. Moro era anch’egli favorevole a un governo di centro-sinistra, ma era consapevole del fatto che ci sarebbe voluto ancora diverso tempo per convincere sia il resto del partito, sia le gerarchie ecclesiastiche e, proprio per rassicurare quella parte di DC recalcitrante all’apertura a sinistra, venne eletto nuovo Presidente della Repubblica, grazie anche ai voti del MSI e dei Monarchici, Antonio Segni, iscritto al vecchio Partito Popolare fin dalla sua fondazione e tra i padri fondatori della Democrazia Cristiana. La sua elezione servì proprio a rassicurare che, seppur in vista di un governo di centro-sinistra, la carica più alta dello Stato apparteneva comunque al centro-destra.
Segni prestò il suo giuramento l’11 maggio 1962 dopo essere stato eletto al nono scrutinio con 443 voti su 845 e nel discorso di insediamento delineò già la sua interpretazione del ruolo presidenziale quale garante della Costituzione e dell’unità civile e morale della nazione. Durante la sua presidenza, rinviò alle Camere otto progetti di legge sprovvisti di copertura finanziaria e ostacolò quelli relativi alla nazionalizzazione dell’energia, ma non oltrepassò mai i limiti del suo mandato. Nell’estate del 1964, il pericolo reale di attuazione di un piano che prevedeva l’arresto in massa di esponenti socialisti in caso di deriva socialista nella gestione della politica interna che sembrò essere stato elaborato da Segni in persone su pressione degli ambienti politici e militari, portò a un incontro privato e segreto tra il Presidente e i leader dei partiti di governo, Moro e Saragat. Secondo teorie recenti l’alterco che ne scaturì provocò a Segni un ictus che lo costrinse poi alle dimissioni per impedimento.
1964-1971: Giuseppe Saragat
Considerato che il Partito Socialista di Nenni e il Partito Socialdemocratico di Saragat condividevano insieme i banchi del governo, si ponevano le basi per una riunificazione a sinistra. L’unico impedimento che poneva un freno alla riunificazione era proprio il dualismo dei due leader e le dimissioni di Segni furono l’occasione perfetta per aprire le porte del Quirinale a uno dei due e lasciare invece la guida del partito riunificato all’altro.
Saragat, acceso antifascista, fu il primo Presidente della Repubblica socialista e venne eletto al ventunesimo scrutinio con 646 voti su 963, il 28 dicembre 1964. Già nel messaggio pronunciato in occasione del giuramento, indicò la sua intenzione di dare al ruolo un’impronta di umanità, “sereno moderatore dei contrasti che si sprigionano nel Paese come condizione di sviluppo”, per usare le sue parole. Durante la sua presidenza aumentarono le udienze concesse e le visite nelle varie città d’Italia rendendo chiara la sua volontà di voler essere un Presidente tra la gente e non all’interno di un palazzo. Durante il suo mandato ebbe inizio la florida stagione del 1968 la cui onda lunga, in Italia, porterà all’inizio dell’autunno caldo con la stagione d’oro dei sindacati e alla strategia della tensione che iniziò ufficialmente il 12 dicembre 1969, alle 16.37 con l’esplosione di una bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano.
1971-1978: Giovanni Leone
Il 01 dicembre 1970 fu approvata la legge sul divorzio su proposta di un parlamentare socialista e di uno liberale, ma appoggiata da una larga parte del Parlamento che vide l’opposizione solo di DC e MSI i quali, come ultima arma, invocarono il ricorso al referendum per l’abrogazione. Il referendum non si terrà fino al 1974, ma nel frattempo una tornata di elezioni amministrative fece registrare anche nel Paese un forte calo della Democrazia Cristiana a fronte di un avanzamento del MSI guidato da Giorgio Almirante, ex protagonista del fascismo e leader carismatico capace sia di guardare al passato, sia di poter inserire il partito in un quadro politico più ampio. La crescita della destra fu un campanello d’allarme per la DC che credette di doversi spostare per evitare l’emorragia di voti già in corso e, per questo, decise di candidare a nuovo Presidente della Repubblica, Giovanni Leone che venne poi eletto grazie anche ai voti missini il 24 dicembre 1971 al ventitreesimo scrutinio, con 518 voti su 1008.
Leone si distanziò immediatamente da Saragat definendosi un semplice notaio delle scelte del Parlamento e del governo in quanto non spettava a lui formulare programmi o indicare soluzioni. Durante gli anni di grande fermento civile e morale dati dal referendum sul divorzio e dall’approvazione della legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi, di crisi economica e terroristica, Leone si distinse per prudenza istituzionale e pieno rispetto delle istituzioni. Ciononostante fu coinvolto nello scandalo Lockheed riguardante un affare di tangenti per l’acquisto da parte dello Stato di aerei americani di cui Leone sarebbe stato personaggio chiave. Le accuse non furono mai provate, ma la campagna mediatica de “L’Espresso” indusse il Partito Comunista a chiederne le dimissioni che furono firmate il 15 giugno 1978 a sei mesi dalla scadenza del regolare mandato e dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse con cui Leone si era sempre reso favorevole a trattare per la liberazione del leader democristiano, contrariamente dalla politica di fermezza di gran parte dei partiti.
1978-1985: Sandro Pertini
Bettino Craxi era un giovane dirigente socialista quando arrivò alla guida del partito all’indomani delle elezioni del 1976 e iniziò ad attuare le strategie che, negli anni seguenti, trasformarono il partito schierandolo su posizioni socialdemocratiche pur lasciando forte l’identità socialista dei suoi esponenti. Con la morte di Moro e le dimissioni di Leone, il candidato naturale per la presidenza della Repubblica sarebbe stato Ugo La Malfa, segretario del partito Repubblicano e alla guida di un governo con Moro nel 1974 che avrebbe fatto da apripista all’ipotesi del compromesso storico, cioè un governo, il primo in assoluto nella storia d’Italia, di cui avrebbero fatto parte i comunisti, ormai ai livelli o quasi della DC per gradimento elettorale. Craxi, convinto oppositore dell’ipotesi, riuscì a inserirsi abilmente nei giochi proponendo il nome di Sandro Pertini, socialista vicino al mondo comunista e con un ruolo importante nella lotta partigiana per la liberazione.
Pertini venne eletto l’8 luglio 1978 al sedicesimo scrutinio con 832 voti su 995 e prestò giuramento il giorno successivo all’età di ottantadue anni. Da subito percepito come Presidente galantuomo, grazie alla sua storia di eroe antifascista e di fondatore della Repubblica, riuscì a tranquillizzare il Paese in un momento di forte turbamento e fece della figura di Presidente il simbolo dell’unità del popolo italiano e l’interprete dei valori di libertà e democrazia presenti ancora oggi. Il suo modo di intervenire nella vita politica del Paese, con passione e amore per le istituzioni repubblicane, furono una solida ancora a cui aggrapparsi in quegli anni di terrorismo e stragi (da ricordare l’attentato alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980). A Sandro Pertini si deve il riconoscimento del potere di esternazione al Capo dello Stato che può, grazie a esso, rendere noto il proprio pensiero politico sia mediante messaggi formali alle Camere, sia attraverso esternazioni in forma libera rivolte a qualunque destinatario, tra cui il popolo con cui Pertini intrecciò un fitto dialogo. Presentò le sue dimissioni con otto giorni di anticipo rispetto alla scadenza del mandato per lasciare posto al suo successore, già eletto.
1985-1992: Francesco Cossiga
Nel 1981 Giovanni Spadolini, nuovo segretario del Partito Repubblicano, fu il primo Presidente del Consiglio non democristiano alla guida di un governo di pentapartito formato da socialisti, liberali, democristiani, repubblicani e socialdemocratici. Tuttavia era una coalizione scarsamente coesa sul piano degli intenti programmatici, che fu causa di un sostanziale immobilismo tanto nelle forze di governo, quanto in quelle di opposizione e, in particolare, tra le file del Partito Comunista che preferì godere delle ampie concessioni sul terreno del sottogoverno (come, ad esempio, la direzione di strutture pubbliche importanti) piuttosto che realizzarsi come una vera alternativa nonostante l’ampio sostegno elettorale. Due anni dopo, per un bilanciamento di poteri tra le forze di governo stabilito nel “Patto della staffetta”, Craxi venne nominato nuovo Presidente del Consiglio e il democristiano Francesco Cossiga salì alla presidenza della Repubblica.
L’elezione avvenne il 24 giugno 1985 al primo scrutinio e con la maggioranza schiacciante di 752 voti su 977 e fu il più giovane Presidente della storia italiana, avendo solo cinquantasette anni. La sua presidenza fu caratterizzata da due fasi distinte e contrapposte: la prima in cui si contraddistinse per il classico ruolo del Presidente-notaio nei primi cinque anni di mandato e la seconda, iniziata con la caduta del muro di Berlino, in cui l’immobilismo della classe politica italiana lo portò ad abbandonare la riservatezza istituzionale e a iniziare una fase di conflitto e polemica provocatoria ed eccessiva. Fu soprannominato “il grande esternatore” per l’uso spropositato di esternazioni mediatiche in cui denunciava i ritardi e le anomalie del sistema politico per cercare di spronare i partiti di governo ad agire. Tali interventi provocarono lo scontro politico che fu ancora più accentuato dall’ammissione di Cossiga della sua appartenenza all’Organizzazione Gladio, una struttura paramilitare segreta che operava in Italia allo scopo di preparare la resistenza in caso di occupazione sovietica o, comunque, dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia. Nel dicembre 1991 il Partito Democratico della Sinistra, erede del PCI, chiese la messa in stato d’accusa del Presidente per attentato alla Costituzione e nell’aprile successivo, a due mesi dalla scadenza del mandato, Cossiga annunciò polemicamente le sue dimissioni in un discorso televisivo.
1992-1999: Oscar Luigi Scalfaro
Lunedì 17 febbraio 1992 fu emesso un ordine di cattura per il presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, membro di primo piano del Partito Socialista milanese colto sul fatto mentre percepiva una tangente: era l’inizio di Tangentopoli e della crisi che deteriorò sensibilmente il rapporto tra cittadini e istituzioni. Non solo, appena tre mesi dopo, il 23 maggio, l’Italia fu scossa dalla strage di Capaci che causò la morte del magistrato Giovanni Falcone per mano della mafia. Quella di Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Camera democristiano, fu una candidatura istituzionale per sbloccare la situazione e riuscì a trovare una maggioranza di 672 voti su 1002 al sedicesimo scrutinio due giorni dopo l’attentato al giudice Falcone, il 25 maggio 1992.
La sua elezione fu la risposta della classe politica al discredito che la vedeva protagonista in quegli anni e fu caratterizzata da un notevole attivismo giustificato dalla necessità di difendere le istituzioni al collasso. Scalfaro du protagonista di due scioglimenti anticipati delle Camere e dall’avvicendamento di sei Presidenti del Consiglio sia politici, che tecnici, ma non nominò alcun senatore a vita, a differenza dei suoi predecessori. I governi sotto la sua guida cercarono di affrontare i problemi enormi di quegli anni e, alcuni, riuscirono anche a ottenere risultati importanti soprattutto sul piano economico, ma la crisi in atto e le indagini su Tangentopoli sgretolarono a poco a poco la maggioranza svelando un sistema organizzato di spartizione delle tangenti. Scalfaro si dimise in anticipo rispetto alla scadenza del mandato per favorire l’insediamento del suo successore.
1999-2006: Carlo Azeglio Ciampi
Il governo guidato da Giuliano Amato, tecnico socialista, rassegnò le sue dimissioni in seguito all’allargarsi a macchia d’olio dello scandalo di Tangentopoli che decretò il crollo elettorale sia del Partito Socialista che della Democrazia Cristiana che iniziarono quindi a trasformarsi, rinominarsi e scindersi. Amato, conscio del fatto che tutte le prospettive e gli equilibri politici erano cambiati, rassegnò le sue dimissioni nelle mani del Capo dello Stato Scalfaro, il quale nominò al suo posto il primo Presidente della Repubblica non parlamentare della storia repubblicana: Carlo Azeglio Ciampi. Il governo che formò fu a forte valenza tecnica ma con significative presenze partitiche, mentre il Parlamento eletto l’anno precedente si trovò a dover varare una nuova legge elettorale per andare a nuove elezioni. La legge varata fu il Mattarellum, a ideazione e firma di Sergio Mattarella. Da Presidente del Consiglio prima e da ministro poi, Ciampi dette un contributo importante per il raggiungimento dei parametri previsti dal Trattato di Maastricht che prevedevano l’ingresso dell’Italia nell’Euro fin dal primo momento della sua creazione.
Ciampi, livornese laureato prima in lettere alla Normale di Pisa e poi in giurisprudenza, intraprese la sua carriere alla Banca d’Italia poco più che ventenne e arrivò a dirigerla alla soglia dei cinquanta anni. Nominato alla presidenza della Repubblica, venne eletto il 13 maggio 1999 al primo scrutinio con una maggioranza di 707 voti su 990. Al pari di quanto aveva fatto Pertini prima di lui, a cui Ciampi fu spesso avvicinato e paragonato, il nuovo Presidente interpretò il suo ruolo come figura super partes garante degli equilibri tra forze politiche contrapposte in un periodo caratterizzato da forte conflittualità. Si dedicò al rilancio dei simboli patriottici cercando di sviluppare una cultura politica condivisa che diffondeva i valori di orgoglio nazionale e unità. La sua presidenza fu caratterizzata da numerosi interventi e apparizioni pubbliche, anche in compagnia della moglie, Donna Franca, diventata presto a sua volta l’amata first-lady del popolo Italiano.
2006-2015: Giorgio Napolitano
Tra crisi economica internazionale, avvisi di garanzia, l’emergere di un sistema tripartitico in Italia con la nascita del Movimento Cinque Stelle a fine 2009 e le definitive dimissioni di Silvio Berlusconi dopo quasi vent’anni dal suo primo governo, la presidenza Napolitano si aprì con la celebrazione per la vittoria della Coppa del Mondo di calcio.
Eletto al quarto scrutinio con 544 voti su 990 il 10 maggio 2006, Giorgio Napolitano a ottantuno anni fu il primo Presidente della Repubblica proveniente dalle fila dell’ex Partito Comunista Italiano. Napoletano, laureato in giurisprudenza alla Federico II, fu impegnato nella resistenza e iscritto al PCI dal 1945, salvo poi seguire Achille Occhetto nella trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra, improntato a linee più moderate e rivoluzionarie che sostenne sempre anche all’interno del vecchio partito di Togliatti. Uomo di rigore e rilievo, fautore dell’avvicinamento tra la sinistra italiana e il socialismo europeo, fu ascoltato dai PM di Palermo come testimone nel processo sulla trattativa Stato-mafia e, intorno a tale testimonianza, si aprirono due fronti opposti tra chi, Partito Democratico in primis, imputava attacchi e umiliazioni al Capo dello Stato e chi, tra cui Beppe Grillo e i deputati del Movimento 5 Stelle, sostenevano la legittimità del processo accusando, velatamente o meno, Napolitano di collusione con i boss mafiosi. Visto lo stallo nella scelta del suo successore, accettò una riconferma e il 20 aprile 2013 fu rieletto alla sesta votazione con 738 voti su 997 diventando così il primo Presidente a esercitare un secondo mandato. L’incarico fu tuttavia temporaneo e funzionale all’approvazione di una nuova legge elettorale e Napolitano rassegnò le sue dimissioni due anni dopo, il 14 gennaio 2015.
2015-presente: Sergio Mattarella
Giurista siciliano, insegnante di diritto parlamentare all’Università di Palermo e fine conoscitore del diritto costituzionale, Mattarella iniziò la sua carriera politica nel 1983 tra le fila della Democrazia Cristiana in seguito all’assassinio, tre anni prima, del fratello Piersanti per mano allora sconosciuta, non riconducibile inizialmente con certezza né alla mafia, né al terrorismo nero di quegli anni, della cui responsabilità era invece convinto il giudice Falcone. Successivamente i boss Riina, Greco, Brusca, Provenzano, Calò, Madonia e Geraci furono condannati quali mandanti dell’omicidio del Presidente della Regione Sicilia Mattarella, democristiano della corrente legata ad Aldo Moro e in aperto contrasto con Vito Ciancimino e tutto il mondo della DC legato invece a Cosa Nostra.
Uomo paziente, riservato e delle istituzioni, eletto al quarto scrutinio il 31 gennaio 2015 con una maggioranza di 665 voti su 1009, ha sopportato (e supportato come meglio ha potuto) i giochi di leader politici in cerca di uno spazio ormai non più proprio della politica di altri tempi, autorizzando due successivi governi, uno di destra e uno di sinistra, guidati dalla stessa testa. La crisi del secondo governo Conte e la pandemia mondiale ancora in corso, l’impasse di tutta la classe politica e l’inadeguatezza di alcuni, ha reso Sergio Mattarella l’unica figura solida in un’Italia persa e spaventata. A pochi giorni dalla fine del suo mandato, si parla di una sua possibile (e più che papabile) rielezione, invocata soprattutto da coloro che, il 28 maggio 2018, lo definivano autore della notte più buia della democrazia italiana invocando la sua messa in stato di accusa.
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