top of page
tommiredz

Opere pubbliche ai tempi dell’estetizzazione generalizzata


La mostra su Jeff Koons a Palazzo Strozzi è divenuta oramai il simbolo del riscatto fiorentino sul contemporaneo. La vecchia Firenze immersa nelle sue innumerevoli antichità sembrava brancolare nel presente, incurante di qualsiasi impulso sorgivo, barcollante ed ancorata ancora al ricordo di ciò che è stato e che mai più sarà, e che per giunta continuava a rimanere un’ illusione sulla quale farsi un’immagine continua. Quando sento il contemporaneo a Firenze, le discussioni che si creano intorno a questi argomenti, non manca mai la questione opinabile che punta sul fatto che il contemporaneo spiattellato nelle piazze sia vitale perché unisce il “vecchio” con il “nuovo”, perché rinvigorisce le membra inflaccidite d’una Firenze vecchia e bisunta che ha bisogno d’uno scossone che altre città come Milano, immerse nel “fast, fast, fast” della globalizzazione, hanno ed interpretano bene. Sembra proprio che la cultura all’attenzione sia decisamente sparita nel rapporto all’arte, e questo immancabilmente ha plasmato l’idea che se piazzo un’opera fresca di un artista fresco in piazza della Signoria allora intrinsecamente si instauri una connessione storica e filosofeggiante tra diverse età: come se un Pokèmon davanti al portico degli Innocenti possa creare un legame tra passato e presente. La colpa non è ovviamente dell’arte contemporanea in sé e nemmeno dello spazio in cui si inserisce tale opera, ma è del contesto che si crea quando un’opera estremamente contemporanea si unisce ad uno spazio storicamente e culturalmente riconosciuto come “patrimonio”. E non intendo ovviamente dire che debbano essere vietate installazioni odierne in contesti cittadini d’elevato interesse storico-culturale, ma almeno connetterle con l’ambiente circostante, comunicare al cittadino, al turista, al cultore, il messaggio d’unione, il perché della scelta di tale opera e come essa si ricollega all’ambiente che la circonda, creando così un dialogo con il fruitore e con il contesto d’ambiente in modo da arricchire la comprensione dell’opera stessa e dello spazio stesso. Se l’inserimento di un’ opera è solamente aleatorio allora è meglio non partire proprio, perché se un’opera d’arte contemporanea deve essere solamente di godimento estetico, e alle volte nemmeno quello, se deve essere solamente puro spettacolo artificioso che induca allo sbigottimento di fronte a cotanta contemporaneità in mezzo a tale antichità, allora è auspicabile smetterla. Dato e concesso che le opere del celebre Francesco Vezzoli inserite dal 2 ottobre scorso davanti a Palazzo Vecchio ed all’interno dello studiolo di Francesco I siano contestualizzate sapientemente tramite un lavoro fine, penso tuttavia che il messaggio non sia stato marcato a sufficienza. E la cosa più terribile, oltre al fatto che il contesto in cui è inserita l’opera ultra-contemporanea diventi teatrino morto asservito al concetto dell’opera stessa, è che la voglia di creare contesti forzati riduca al minimo l’apprezzamento delle stesse, e l’autorità storico-artista dell’ambiente, un “patrimonio” che non deve essere violentato, ne risenta gravemente. Penso proprio che le opere di Francesco Vezzoli sarebbero più apprezzate se semplicemente musealizzate, messe a confronto anche con opere antiche, ma non sventolate nei luoghi più autorevoli del patrimonio fiorentino. E se proprio non si può fare a meno perchè non metterle in luoghi un po’ meno turistici? Perchè inserirle proprio nei luoghi simbolo di Firenze? Perchè sono Francesco Vezzoli, Jeff Koons e Jan Fabre, poco ci manca la Marina Abramovich: ovvero la crème de la crème degli artisti contemporanei. Non solo quindi attuali ma ferocemente consumabili e consumati, riverberati di una certa fama che trasuda oramai di consumismo sciatto e degradante. Si creano allora solamente falsi ed illusi contesti ibridi, fatti apposta per scotomizzare la verità spiacevole che consiste solamente nel monetizzare, nell’attirare i poveri turisti attirati a loro volta dal nome e dallo spettacolo. Povero “patrimonio” quindi, che diventa schiavo ancor di più della bigliettazione. Passabile l’opera di Penone, anch’essa in piazza della Signoria, inseritavi dal marzo scorso fino alla fine dell’estate che si connetteva bene o male all’anniversario dantesco. E poi il fatto che il Penone sia un artista poco conosciuto ai molti (ed anche al sottoscritto che ne ha fatto prima esperienza vedendo l’albero di ferraglia di fronte Palazzo Vecchio) può essere un metodo di indottrinamento dei cittadini, un evergetismo culturale gratuito per il popolo che fa dimenticare per un attimo quel velo di insensatezza e di vuotezza che queste installazioni lasciano nella mente di molti, ma fa balenare quella certezza nascosta, quel mantra recitato da una miriade di bonzi epilettici: “ars gratia artis” o “l’art pour l’art”che dir si voglia, concetto balordo se preso come legge universale.


E mica sono solamente io, scemo di turno, che sbraita per un opera d’arte piazzata nel centro fiorentino, che si indigna se si sconquassa un po’ quell’aura riverente che Firenze si è fatta per secoli e secoli. Certo sì, mi direte voi dai vostri piccoli pulpiti: “pare un po’ esagerata la reazione, d’altronde anche tu sotto sotto godi alla vista dorata di un Jeff Koons, di fronte ad un tartarugone strusciante di Jan Fabre”. Ebbene sì, ma l’integrità di storico e filologo dell’arte vince su tutto, e se possa anche piacermi un prodotto d’estrema contemporaneità (cosa giusta e degna), non è assolutamente intrinseco che io debba accettare tale prodotto in un contesto culturalmente importante. E non si travisi il mio intento, dato che non voglio certamente asserire che opere contemporanee non siano patrimonio, cosa che sarebbe oltre che stupida pure malvagia. Ma dobbiamo comprendere che quando entriamo in Santa Maria del Fiore, o nel Battistero o in piazza della Signoria, ci troviamo in luoghi che sono stati creati da una sedimentazione di lavori, come se fossero una scientifica stratigrafia archeologica. Le opere e soprattutto gli spazi sono stati modificati nel tempo ed una cosa che ci appare perfettamente armonica, perfettamente al suo posto, è in realtà il prodotto di epoche diverse che si reggono insieme.

Francesco Vezzoli in Florence

Solitamente il fruitore che vede non ha la percezione di ciò, ed inserire in tali spazi così fragili e teneri, che bisognano d’una comprensione lenta e metodica, calma e ponderata, un’opera contemporanea improvvisa può annullare tutto il contesto che si è creato. Allora significa che deve essere abolito qualsiasi intervento odierno? Che una qualsiasi inserzione d’estetica contemporanea pura apparirà come insulto di fronte al vetusto patrimonio? Ebbene sì. Almeno fin quando non si sarà capito che prima di inserire contesti forzati in contesti autorevoli si deve fare un attento esame di coscienza, vagliare alla critica ogni minimo messaggio ed ogni minimo intento, e togliendosi dalla mente una volta per tutte la voglia di “artification”, la voglia di spettacolarizzazione del messaggio artistico. La lenta comprensione dell’opera ed il suo rapporto scientifico che essa possiede con il mondo che la circonda infatti ha lasciato oggi spazio alla fruizione spettacolosa della stessa. La ricerca del fruitore di fronte al prodotto artistico si concentra vergognosamente sul captare rapsodicamente emozioni, come alla ricerca di qualche sballo estetico, di qualche trip emotivo che un opera non può dare. Oggi siamo nell’era del “capitalismo artistico” (L’esthétisation du monde. G. Lipovetsky, J. Serroy) in cui la merce è diventata non solo utile ma anche esteticamente attraente, sia nella forma che nel suo pseudo-contenuto, e ciò comporta che anche l’arte si sia trasformata in merce atta alla soddisfazione di intimi desideri di possesso del fruitore. Se prima vigeva l’ottica dell’homo oeconomicus, che compra e provvede al suo utile, oggi è presente l’homo aestheticus che compra ed esige oggetti non solo per la propria utilità ma anche per il senso estetico che da essi trasuda, e tutti quindi siamo trasformati in consumatori estetici che si intendono di bellezza, di una bellezza propugnata come raffinata e di élite ma che di élite non è. Il consumismo non è solo comperare merce in modo massivo ma è proporre tale merce ad un pubblico massivo che ingloba in essi sia élite che proletariato, è indubbio allora che il consumatore estetico, di qualsiasi estrazione sociale sia, compra prodotti che hanno un ideale estetico di massa. Se la merce quindi ha attributo estetico, attributo che è connesso col prodotto artistico allora inevitabilmente tale prodotto artistico si affibbia anche i valori della merce, e quindi un’opera d’arte deve soddisfare le esigenze dell’osservatore, la voglia di possedere e di sentirsi appagato, la voglia di godimento estetico. La cosa davvero degradante è che questa forma mentis si approccia come tale pure alle opere d’arte di altri tempi, il che è un male perché si travisa il significato di quello che sono, e pure l’apprezzamento più genuino. Ecco perché quando vedo un Vezzoli in piazza della Signoria sento un velo di tristezza. “Il pericolo sta piuttosto nell’estetismo che è il portato dell’estetizzazione della vita, in cui le forme annullano il contenuto, le emozioni hanno la meglio sul pensiero, l’intrattenimento subentra all’apprendimento” (Musei, patrimoni e installazioni ai tempi dell’estetizzazione generalizzata. Antropologia Museale: Rivista della Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici, Anno 14, Numero 40/42, 2017-2018). E’ bene quindi che questo approccio impulsivo e scoordinato all’opera d’arte resti vivo solamente per i prodotti estremamente contemporanei ma non si mischi con la fruizione dell’opera d’arte antica (ed intendo pure quella degli anni 60 del novecento), perché si creerebbe una confusione abominevole, dato che per comprendere il passato è vitale entrarci dentro, porsi in una prospettiva del tutto diversa e non dettata da preconcetti. Ma è bene far sapere che come noi oggi studiamo la pop art degli anni 50-60 nei termini di “consumismo”, similmente tra 100 anni o meno studieremo il nostro tempo con i termini di “capitalismo artistico”. Opto quindi non per uno sguinzagliamento random di opere contemporanee a giro per Firenze, dove si crea una confusione totale di approcci, ma per una musealizzazione delle stesse, e lì sì che si può fare tutti i confronti fantasiosi che si vuole, anche con l’antico. Dato che il museo è un atto critico, e quindi pur sempre un’astrazione dalla verità tangibile dei fatti (ma non falsità o realtà modificata ed impacchettata), allora lì potremmo relazionarci pacificamente con l’estrema contemporaneità affiancata all’antichità. E questo è stato fatto parecchie volte e non sarebbe nemmeno una novità. Nel 2017 ad esempio la National Gallery of Canada ha proposto per i 150 anni dalla nascita del Canada come nazione un confronto davvero particolare (https://www.gallery.ca/whats-on/exhibitions-and-galleries/indigenous-and-canadian-art). In una sala vennero esposte accanto alcune opere del Group of Seven (pittori canadesi attivi nei primi del XX secolo che dettero il via alla prima scuola paesaggistica in Canada) ed una canoa, sempre di quel periodo, ma un manufatto indigeno di un “artista algonchino” come loro lo definirono nella didascalia.



La canoa non era di proprietà della National Gallery ma era in prestito dal museo della canoa di Peterborough dove il manufatto era considerato come “manufatto” e non come prodotto artistico. Ora il paragone con ciò che ho scritto prima potrebbe sembrare insensato, dato che non siamo di fronte ad opere messe a confronto di tempi diversi ma bensì di fronte ad opere di tempi uguali ma di contesti estremamente differenti. Ciò che ha fatto la National Gallery mi pare davvero stupido, e quasi rasenta l’insulto nei confronti dei popoli indigeni autoctoni, e l’intento era tutto il contrario. Comunque considerare una canoa indigena alla stregua di un prodotto artistico è forzare il concetto di arte occidentale nei confronti dei poveri indigeni. Insomma se già questi popoli vengono sculacciati di continuo dalla globalizzazione occidentale, con questa mossa si è dato il colpo di grazia. In primis mai e poi mai una canoa è considerata prodotto artistico dagli indigeni, e se così fosse dovremmo capire che la concezione di “arte” si differenzia concettualmente tra la nostra cultura e la loro, se infatti noi consideriamo un prodotto artistico come qualcosa che deve essere obbligatoriamente fruito, visto da qualcuno, fatto per qualcuno, per molti popoli nativi questo non è implicito. Inserire quindi una canoa tra il Group of Seven significa occidentalizzare. Anche un’ aspirapolvere per noi se messo in una teca può diventare opera, non facciamo lo stesso procedimento per questa canoa, significa insultare non solo la povera canoa ma il popolo stesso che l’ha creata, con pure la sua cultura. Questo confronto tuttavia è stato fatto in un museo, si può dire tutto il male che si vuole ma non che non poteva essere fatto. Se per assurdo mettessi un’architettura di Renzo Piano nel bel mezzo di un villaggio di nativi americani, in cui si intacca lo spazio vitale dell’uomo, allora sarebbe stata una cosa abominevole. Perché finché si creano contesti forzati (seppure sbagliati) all’interno di un museo, questo non reca danno a nessuno, ma quando inserisco un contesto forzato all’interno del vivibile, nello spazio in cui l’uomo agisce, nello spazio in cui l’uomo ha vissuto ed ha sedimentato la propria cultura, allora c’è il rischio che l’intera comprensione di tutto si vada frantumandosi e che l’identità di una società (ed il suo prodotto artistico) entri in confusione.


Per concludere vorrei citare un altro che come me sbraitò molto per un opera di Jeff Koons, installata nel 2015 in Piazza della Signoria, il cui titolo era “Pluto and Proserpina”. Il suddetto fu Tomaso Montanari che meglio di me mise elegantemente su carta, su un articolo su Repubblica(https://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/10/02/news/la_statua_dorata_di_jeff_koons_che_sbeffeggia_questa_firenze-124146782/), il disagio che l’opera dorata comportava per Firenze.


"È invincibile l’idea che quest’idolo d’oro ritragga – con atroce perspicacia – l’anima di una Firenze che vive di un’arte del passato che ormai non riesce più a capire, ma che considera ormai alla stregua di una miniera d’oro scintillante. Una Firenze che confonde l’arte col marketing, la creatività con la copia, la bellezza con il lusso, lo spazio urbano con il parco a tema, la dignità del pubblico con i guardiaspalle dei paperoni. Forse non era questa l’intenzione dei promotori (anche se non giurerei su quella di Koons, malizioso folletto di strepitosa intelligenza), ma – si sa – lo spirito dell’arte soffia dove vuole, e nessuno può sperare di dirigerlo e controllarlo."


Nell’attesa che questa era del “capitalismo artistico” finisca al più presto, spero che queste parole siano d’utilità per qualcuno e che il mio pensiero contorto venga condiviso. Ai pochi ardimentosi auguro di cambiare pelle, di levarsi l’abito di homo aestheticus e di vestirsi d’homo criticus.


Post recenti

Mostra tutti

Fahrenheit 451

Tramite la collaborazione tra l'associazione "Csx" Firenze e il teatro cinema La Compagnia, in via Camillo Cavour a Firenze, lunedì 13...

Comments


bottom of page