A volte, forse a scuola, forse sui giornali, gli eventi e la storia vengono raccontati in chiave utilitaristica. Spinte centripete e spinte centrifughe, materialiste, di attori sociali che pensano ai loro interessi. Viene detto che le cose succedono perché c’è sempre qualcuno che guarda “al suo”; che siano i principi tedeschi che proteggono Lutero per avere indipendenza dall’imperatore, o l’esistenza di un Unione Europea che non fa gli interessi dei suoi cittadini. Uno può chiedersi se il mondo dove viviamo possiede, dopotutto, la bontà con cui lo vogliamo dipingere, se le persone, la politica, tutto, alla fine, hanno un pizzico di altruismo disinteressato, o se esistere, nella sua sostanza, è solo un motore di istinti, orgogli, interessi.
La risposta si basa su quello che noi includiamo nel significato di utilità. A grandi linee, una suddivisione di questo tipo può essere tracciata: utilità individuale, ed utilità comune. Semplicemente, un attore sociale, che sia una persona, un’azienda, o uno stato, agisce secondo utilità individuale quando, nelle sue scelte, non considera gli effetti che esse avranno su altri attori, ma solo quelli sulla propria condizione. Quando invece le sue scelte sono contestualizzate in un’orizzonte più ampio, e gli effetti su altri attori vengono messi in conto, allora si può parlare di utilità comune.
Ma perché tutte queste chiacchiere su storia, utilità, interessi? Perché ho come il sentimento che oggi certe opinioni sul mondo caschino un po’ dal cielo. Si giudica, si condanna, senza sapere la storia delle cose, la loro evoluzione, quello che è stato affrontato. Questi qua sono comunisti, e quelli sono razzisti, e loro vogliono toglierci la sovranità, e loro non hanno idea di quello che stanno dicendo. Il guaio è che nessuno sa più quale è la verità. E quindi nessuno sa più i motivi delle cose. Tutti incediamo con una rappresentazione della realtà che, vero, è filosoficamente falsa per definizione (è una rappresentazione, dopotutto), ma che da persona a persona cambia così tanto che, davvero, non ci si capisce più niente. Alla fine, piuttosto che un qualche tipo di convergenza, spesso opinioni diverse alimentano il divario, allontanano, non avvicinano. Questo sembra essere uno dei fattori che generano una visione del mondo pessimista, dove, tristemente, queste parti lontane non possono più concepire una dimensione comune, una realtà in cui l’utilità che spiega, grossomodo, l’evolversi delle vicende, non sia meramente individuale, limitata. Tutto, alla fine, cade in una predisposizione psicologica a descrivere il presente storico come gente che cerca di accumulare “potere” ed estendere le proprie influenze. Un presente che spesso si dimentica del passato, forse per pigrizia, o per mancanza di tempo. Un presente egoista e individualista, che a forza di crederci, diventa vero.
Una delle tante realtà su cui oggi esiste dibattito, le cui origini vengono forse ignorate in un drammatico taglio alla propria storia e al proprio significato, è l’Unione Europea. La storia dell’Unione Europea è frastagliata quando affiancata alla sua legittimità di fronte a cittadini che non sempre, soprattutto nei suoi primi passi, sono stati ragionevolmente e sufficientemente interpellati. Dopotutto, fu solo con il trattato di Maastricht (1992) che per la prima volta dopo quarant’anni dall’inizio dell’integrazione europea, dopo la seconda guerra mondiale, l’assemblea chiamata Parlamento Europeo (discutibilmente l’unico forte organo democratico dell’Unione) ricevette il potere di approvare le leggi europee insieme al Consiglio dei Ministri. Fino ad allora, e per qualcuno forse ancora oggi, i cittadini degli stati membri erano stati lasciati piuttosto in disparte. E quindi, certo, quando qualcuno dichiara che l’Unione non fa gli interessi dei propri cittadini, ha delle basi solide da cui partire. Ok. Quindi? Che si fa, l’Italexit? Forse avrebbe senso, ma il senso viene quando si guarda al panorama completo. Le diversità di opinione che abbiamo dell’Unione Europea è interessante, perché rappresenta benissimo come la mancanza di informazione, e di educazione, possa generare pareri divergenti dagli effetti relativamente pericolosi. Se si astrae il presente di una cosa dal suo passato, discutibilmente anche dal suo futuro, e più in generale da una sufficiente comprensione, non se ne può conoscere il vero significato, non in modo adeguato, qualsiasi cosa questa possa essere.
Dove è la Bulgaria? Quanti di noi conoscono la Dichiarazione Schuman? Perché così pochi? Sono queste le cose che vanno apprese a scuola! A volte ci si perde così tanto in storie e filosofie e letterature, che si arriva alla fine dell’ultimo anno senza avere più tempo di dare un senso allo studio del passato, un senso che si ottiene se il passato insegna al presente. Io come tanti ho frequentato il liceo scientifico. Ma cosa ho veramente imparato del mondo di oggi? Qualcuno dirà “ti hanno dato gli strumenti”. Ma mica tutti poi li usano questi “strumenti”; affidare all’individuo la responsabilità della propria educazione del presente è una scelta che, a occhio, non mi sembra si stia traducendo in una grande educazione del presente. E gli esempi come questo non sono pochi. Quanti conoscono la Costituzione? Quanti sanno cosa è una Banca Centrale? Quanti conoscono i diritti fondamentali dell’uomo? Si può chiedere ad un popolo di scegliere il proprio futuro senza fornirgli una preparazione che gli consenta di farlo in modo adeguato?
È interessante chiedersi perché, nella Atene antica, il livello di educazione fosse alto come era, almeno tra i cittadini maschi che potevano partecipare alla vita pubblica. Ad Atene, in un metodo che sembra piuttosto democratico, le cariche pubbliche venivano attribuite per sorteggio. Il sorteggio permetteva a chiunque di ricoprire ruoli di importanza, in modo simile a come oggi chiunque abbia più di 18 anni ha un ruolo di importanza nel decidere il futuro di un paese. Non è proprio la stessa cosa, ma si vedrà che quando il problema è su grande scala, i due esempi non sono più così distanti. Dato che chiunque poteva essere sorteggiato, non ci si poteva certo permettere che un incompetente avesse sul collo la responsabilità degli altri. Di qui, il grande livello di educazione che si rese necessario nella democrazia ateniese: il popolo ha il potere, e il popolo, ragionevolmente, deve essere all’altezza di un tale potere. È un’esagerazione? Non so. Come citano molte fonti, tra cui un articolo interessante de Il Sole 24 Ore, “in Italia, di alto, non abbiamo solo lo spread. Abbiamo anche il tasso di ignoranza. Ignoranza nel senso letterale del termine, cioè di non conoscenza delle cose del mondo. Per l’esattezza, siamo i più ignoranti d’Europa e i dodicesimi più ignoranti del mondo.” E a quanto sembra un titolo di studio non basta a capire quanto uno è consapevole della realtà.
Associare l’ignoranza agli sviluppi sociali e politici del nostro paese non è qualcosa che uno può fare perché gli va. Servono analisi statistiche e dati, e una serie di premesse che potrebbero facilmente falsare l’intero processo dalle fondamenta. Tuttavia, si può sicuramente riflettere, e magari, informarsi?
Forse tante cose, come l’immagine di un’Unione Europea elitaria e disinteressata, il pessimismo verso l’idea di un orizzonte comune, e questa aria di frustrazione che talvolta si può respirare quando pensiamo al nostro paese, passerebbero, si evolverebbero, se solo sapessimo qualcosa di più.
“La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un'Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. […] La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile. […] Il governo francese propone di mettere l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un'organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei. La fusione delle produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, […] e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime.”
Dichiarazione Schuman, 9 Maggio 1950
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