Quando tredici anni fa mi sono trasferito a Firenze per studiare giurisprudenza avevo preso in affitto un appartamento piccolo e un po’ datato all’interno di un condominio altrettanto piccolo e datato. Però era a due passi dalla facoltà e le persone con cui avrei condiviso casa sarebbero rientrate nella lista dei miei compagni di avventure. E poi a 19 anni ti adatti facilmente a tutto, te ne importa poco dei vicini rumorosi o delle lettiere per gatti sparse sulle scale condominiali. Quindi sì, ero contento del mio nuovo alloggio.
Come ho detto prima, i miei coinquilini erano tipi a posto, anche se all’inizio ci è voluto un po’ ad andarci d’accordo. Oltre a me in quell’appartamento viveva una ragazza milanese che studiava restauro all’Accademia di Belle Arti e un ragazzo toscano iscritto a scienze politiche (da un bel po’ di tempo). Erano entrambi più grandi di me e vivevano lì da tre anni ormai.
Ricordo che Sara, la restauratrice, fu la prima ad accogliermi appena arrivai. “Eccolo qua, il terzo moschettiere!” urlò abbracciandomi, senza nemmeno farmi posare le valigie. Era più alta di me e, come avrei scoperto di lì a poco, molto emotiva. “I moschettieri erano quattro, deficiente” rispose una voce fioca dal salotto. Quel corpo esile abbandonato sul divano che stava sfogliando le pagine di un libro sospirando, come infastidito dalla mia presenza, era Manuel, quello di scienze politiche. E sì, rispecchiava un po’ lo stereotipo dello studente intellettualoide coi capelli lunghi e la puzza sotto il naso che dava sempre la colpa ai professori se non passava gli esami. Ma fidatevi quando vi dico che quei due scappati di casa sono tutt’ora i miei migliori amici.
“Perché il pianerottolo è pieno di lettiere per gatti?” fu una delle prime domande rivolte a Sara, disponibilissima di introdurmi nel mondo dell’indipendenza. “E’ solo la Signora Anna, la nostra vicina. Due anni fa il suo gatto è stato investito da un’auto e da allora lei cerca di attirarlo con le lettiere e i croccantini sparsi ovunque”. “Quindi questa signora non sa ancora che il suo gatto è morto?” chiesi io e subito mi rispose Manuel con il suo tono annoiato. “Non c’è bisogno di chiamare il WWF, è stata lei ad accorgersi dell’incidente. Semplicemente, se l’è dimenticato. Alcuni giorni se ne ricorda e allora la senti borbottare arrabbiata con se stessa per aver dimenticato tutte le maledette lettiere. Ma il più delle volte non è molto lucida, sai? Si chiama Alzheimer, ovvero il disturbo neuro cognitivo degli over 65, bello”. E subito Sara, con un'occhiataccia “Sei così avanti con gli esami tuoi che ti sei messo a studiare medicina adesso?”
Ebbi l’onore di conoscere la famosa Signora Anna un paio di giorni dopo il mio arrivo. Stavo rientrando dopo le prime lezioni di diritto quando la vidi spiarmi dalla sua porta per poi fermarmi in cima alle scale. Sarà stata alta un metro e trenta, aveva i capelli molto lunghi legati in una treccia e due occhietti azzurri vispi come quelli di un bambino. “Salve, mi scusi se la disturbo, sa, non è molto tempo che mi sono trasferita, ed ho subito perso il mio gatto. E’ tutto rosso, beh, arancione, e bello paffuto, sì, mangia tanto, ma non so proprio dove sia. Lei l’ha mica visto?” mi chiese sorridendo. “Mi spiace signora, anch’io mi sono trasferito da poco e non ho visto nessun gatto qui in giro”. Appena sentì il mio accento siciliano mi chiese incuriosita da dove venissi e mi disse che anche lei era di Siracusa. “Ormai ho perso la parlata siciliana, questi fiorentini sono tremendi, sa? Io sono qua da un po’ di tempo ormai, sì…” e si fermò confusa a pensare. Mi presentai per bene e così fece anche lei, ma sebbene io volessi congedarmi e rientrare in casa mia, la Signora Anna non mi mollava la mano. “Somiglia molto ad un mio caro amico, sa? Jackson, sì proprio lui. Voleva che io lo chiamassi Jack. Il mio Jack…” e sorrise di nuovo, poi piano piano cambiò espressione, come se si fosse accorta di aver detto qualcosa di sbagliato, e tornò subito in casa sbattendo la porta.
“Lo dice a tutti, bello, eppure tanti ragazzi coi capelli lunghi nel ‘43 non c’erano, eh” mi spiegò Manuel dopo avergli raccontato dell’incontro con la Signora Anna. “Hai capito che è un po’ fuori di testa, no? Ogni ragazzo con gli occhiali che vede crede che sia il suo soldatino”. Dopo queste sue parole un po’ sprezzanti, Sara gli tirò un calcio sotto al tavolo. Stavamo cenando e io non stavo capendo bene di cosa stesse parlando Manuel. “Ti spiego brevemente la sua storia, risparmiandoti i commenti insensati di Manuel” disse Sara. “La Signora Anna aveva vent’anni, credo, quando assistette allo sbarco in Sicilia del ‘43. Praticamente conobbe questo soldato americano, Jack, che se la portò con sé man mano che salivano in Italia. Lei ha viaggiato in segreto insieme ai soldati, per stare con lui, capisci? E quando sono arrivati in Toscana lei non poteva stare nelle caserme dove stava Jack, quindi si nascondeva nei boschi, e per caso o per fortuna conobbe un gruppo di partigiani, di cui divenne parte. Tempo un anno, la guerra era finita e il “suo soldatino” le comprò l’appartamento di fianco a noi coi soldi del congedo”. Io ascoltavo in silenzio a bocca aperta mentre Manuel si strafogava di pizza e mi diceva “Ho passato l’esame di storia contemporanea grazie alla Signora Anna. Prima o poi racconterà tutto anche a te, vedrai”. “Ma questo Jack, che fine ha fatto poi?” chiesi.
“E’ tornato in America”.
Le volte seguenti in cui incontrai la Signora Anna, per rassicurarla che il suo gatto sarebbe tornato a casa presto, o per rifiutare le mance che mi lasciava sotto la porta per portarle fuori la spazzatura, guardavo quegli occhietti svegli con tenerezza. E la ammiravo moltissimo, perché non sono molte le persone con una storia come la sua. Una volta, dopo aver ancora rifiutato di essere pagato per averle fatto la spesa, mi invitò a casa sua.
Se dovessi descrivere quel suo appartamento con una parola direi “piena”. Piena di fotografie, di quadri, di libri, di lampade, di mattonelle colorate, di tende, di dischi, di cucce e ciotole per gatti. Era un po’ asfissiante entrare nella casetta della Signora Anna, dove tutto era impilato, incastrato perfettamente come sull’orlo di cadere. C’era odore di libri vecchi e ragù, come a casa di mia nonna. Le case delle nonne profumano sempre di ragù.
Mi fece sedere sul divano in salotto, una stanzina illuminata dalla grande finestra a mosaici colorati. Mi guardai intorno almeno una dozzina di volte, perché ogni volta notavo qualcosa di nuovo o particolare tra quelle quattro pareti: una pila di libri sotto una lampada, dei giornali incorniciati e appesi al muro, delle fotografie sparse a terra, numerosi vasi di fiori ormai secchi. La Signora Anna era sempre vestita comoda, come se fosse pronta ad andare a fare jogging. Mia nonna non si faceva vedere da nessuno se non indossava un vestito e non aveva pulito casa; lei invece sembrava che semplicemente non si curasse di come appariva agli altri. “Ecco qua un bel caffè al mio vicino di casa preferito” disse poggiando un vassoio con le tazzine su una pila di enciclopedie. “Non esci molto spesso tu, vero? Sei molto pallido”. Io risi un po’, giustificandomi che avevo sempre da studiare. Mi resi poi conto che non mi stava più dando del lei, forse perché era abbastanza lucida da riconoscermi. “E studi legge, non è vero? Che facoltà nobile!”. Era molto contenta di avermi in casa sua, l'avrebbe notato chiunque. “Anch’io avrei voluto studiare le materie umanistiche, sai? Le scienze non mi sono mai piaciute. No no, io sono per le parole, non per i numeri. Infatti è da quando sono qua che non faccio altro che leggere” disse sorridendo e guardandosi intorno. Poi vide le foto a terra e prima che si alzasse a sistemarle, le raccolsi io e gliele porsi. Erano foto in bianco e nero di case e strade di paese e poi ce n’era un’altra di una giovane coppia. Lui in divisa che cingeva la vita a lei, con un lungo cappotto scuro. Entrambi avevano un fucile sotto il braccio ed entrambi sorridevano. “Devono essermi cadute quando sistemavo lo scaffale. Guarda qui: questa era Siracusa negli anni ’40, prima che venisse bombardata. Poi vennero gli americani, sai? Avevamo tutti paura, poi nessuno parlava italiano, figuriamoci l’inglese!”.
“Questa è lei?” chiesi indicando la foto della coppia. Il suo sguardo si fece serio. Si alzò in piedi e mi indicò un fucile appeso sopra la mia testa, sulla parete dietro il divano. “Mi chiamavano Stella Nera perché avevo capelli corvini lunghissimi. E quello l’ho trovato sulle colline, trai boschi qui vicino. Era tutto buio, io mi ero accampata sotto un albero quando lo vidi: ne avevo già viste tante di armi, quindi lo presi e mi addormentai abbracciandolo, per sicurezza. La mattina dopo ero circondata da tre uomini che mi puntavano i loro fucili contro. Che paura che mi fecero! Credevo che il comandante di Jack ci avesse scoperto. Aspetti, le ho raccontato di Jack, vero?” mi chiese, tornando a darmi del lei. Io annuii ovviamente, e capii che lentamente stava tornando nel mondo dei ricordi, perdendo poco a poco il sentimento del presente. “Ma poi è andato tutto bene, mi sono unita a loro e quella è stata la scelta più importante della mia vita". La Signora Anna si rimise a sedere con lo sguardo confuso e poi si scusò e mi accompagnò alla porta. Non era triste vederla nel suo mondo, fatto di compagni leali nascosti nei boschi, ma lo era vederla mentre piano piano tornava coi piedi per terra, quando si accorgeva di essere a sessant’anni di distanza da quel mondo.
“Ma non ha figli? O nipoti? Per ora è abbastanza indipendente, ma avrà bisogno di qualcuno prima o poi” chiesi io una volta a Sara. E lei mi disse che Jack se ne era andato via lasciandola incinta. Quindi lei aveva cresciuto un figlio da sola, lavorando come cameriera per un professore di lettere. Non osò tornare in Sicilia dai suoi, dopo che aveva abbandonato la sua terra per scappare con un americano. “Questo qua, suo figlio, ha tipo sessant’anni ora, e credo stia a Roma. Dovrebbe fare il banchiere. Non scorre buon sangue tra loro e si vedono un paio di volte l’anno”.
La notte di capodanno io e i miei coinquilini avevamo invitato dei colleghi di università per festeggiare. Non volevamo fare troppa confusione, fu una serata tranquilla. Ma quasi morimmo tutti dalla paura quando, poco dopo lo scoccare della mezzanotte, sentimmo degli spari nella casa accanto.
Ci precipitammo subito alla porta della Signora Anna, che ci aprì puntandoci il fucile addosso. Poi lo abbassò dopo avermi visto. “Muoviti, non abbiamo molto tempo! Stanno già bombardando le altre bande, dobbiamo trovare tutti e dire loro di distruggere i piani degli attacchi ai nazisti!”. Corse in casa e noi entrammo sbigottiti. Vedemmo tre fori sul soffitto e uno alla finestra: vetri, polvere e mattonelle erano ovunque per terra. C’era puzza di bruciato e dalla finestra rotta entrava il vento. “Signora Anna, si è fatta male? Può posare il fucile, per favore?” le chiesi avvicinandomi all’anziana che stava preparando una valigia. “Non c’è tempo, Jack, dobbiamo correre al riparo. Non li senti gli spari?” disse, riferendosi forse ai fuochi d’artificio. Cercò di raccogliere qualcosa da terra, ma si tagliò con un vetro e appena vide il sangue, mi si accasciò addosso.
Fu una notte terribile. Sara non smetteva di piangere, Manuel era sotto shock ma gli altri se ne tornarono a casa quasi subito. Chiamammo un’ambulanza e cercammo dappertutto in quella sua casa un’agenda telefonica. Anche se suo figlio l’avesse odiata, avrebbe comunque dovuto fare qualcosa. La Signora Anna non era solo un’anziana con l’Alzheimer, ma stava diventando pericolosa. Restammo con lei per un paio di giorni, mentre le curavano la ferita e la tenevano sott’occhio, il che significava sotto sedativi, finché non arrivò il figlio. Tornammo a casa stanchi e preoccupati. La notte di spari finì sui giornali e fummo anche interrogati dalla polizia per spiegare cosa fosse successo. La Signora Anna non aveva nemmeno il porto d’armi, poteva rischiare grosso.
Invece la mandarono in una casa di cura, con altri anziani che le tenevano compagnia raccontandosi storie della guerra a vicenda. Per il 25 aprile di quell’anno io, Sara e Manuel le organizzammo una sorpresa ma purtroppo non ci riconobbe e ci fece mandare via.
Il suo appartamento fu sgomberato dal figlio che, quando la Signora Anna morì tre anni più tardi, ci spedì per posta molti dei suoi libri, come aveva specificato lei stessa nelle sue ultime volontà. Fu triste aprire quello scatolone con le sue cose, ma fummo tutti felici di sapere che la nostra anziana partigiana alla fine si era ricordata di noi.
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