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corradociampi

Rinuncia

Il 2020 è stato un anno difficile che ha posto sfide che nessuno si sarebbe mai immaginato. L'idea di dover affrontare una pandemia era un concetto fino a quel momento distante, di cui si era magari solo letto sui libri di storia, i quali ci raccontano della febbre spagnola del 1918 o della Peste Nera del 1348. Mai ci saremmo potuti aspettare che ai giorni nostri ci saremmo dovuti confrontare con la minaccia da incubo di una pandemia.

Dalla fine del 2019 sono iniziate ad arrivare in Italia le notizie della misteriosa malattia che stava colpendo con violenza la provincia cinese dell'Hubei, ma allora sembrava solo una voce lontanissima ed inconsistente, una delle tante notizie riportate dalle sezioni "esteri" dei mezzi di informazione; ma ben presto anche l'Europa, come il resto del mondo, è stata colpita dalla malattia, e da quel momento si sono moltiplicati gli appelli al rispetto delle raccomandazioni delle autorità sanitarie, fin quando il tutto non è culminato con l'ordine di chiudere tutto ciò che non fosse necessario: era iniziato il lockdown.

Di quei tre mesi chiusi completamente in casa con il divieto tassativo di uscire ci ricorderemo come di un periodo surreale nel quale la vita di ognuno è stata completamente stravolta, con la quotidianità che si è ridotta a routine, e le lunghe giornate primaverili che si sono susseguite tutte uguali, tra la noia e l'attesa estenuante, e personalmente, la rabbia e l'impazienza di tornare alla propria vita di sempre. Oltre a ciò, l'amarezza per aver saltato il periodo delle lezioni universitarie, del quale ho avvertito una gran mancanza ed un senso di estraneazione e di perdita, esasperato dalla consapevolezza di essere del tutto impotente e di non poter far nulla per cambiare le cose.

Fino a che, a metà maggio, non è arrivato l'annuncio che tutti aspettavano, e cioè che finalmente si poteva di nuovo uscire, ma con attenzione e responsabilità: la normalità tanto agognata era quindi ben distante.

Il 2021 si è aperto con la speranza che l'imponente campagna di vaccinazioni che si sta svolgendo possa finalmente liberarci dall'incubo della malattia e lasciarci alle considerazioni finali.

Sono già possibili tuttavia alcune valutazioni su quella che è stata la reazione della società a qualcosa di completamente impensabile ed alieno a qualunque pensiero precedente al 2020: ciò che ha accompagnato la vita di ognuno di noi, nel 2020, è stata la consapevolezza di dover rinunciare, almeno in parte, alla propria quotidianità.

Una rinuncia dolorosa, certo, ma che, specialmente quando si pensa alle ore più buie della primavera, appariva sensata e necessaria, nel rispetto di chi soffriva e di chi lottava.

Tuttavia ben presto molti si sono stufati di dover rinunciare a qualcosa per motivi che non li hanno riguardati in prima persona né che hanno colpito familiari e cari: a giugno, quando tutti credevamo che il peggio fosse alle spalle, ebbi una conversazione a dir poco surreale con un uomo al distributore di metano. Mi disse che "era tutta una finta per toglierci i diritti" e che quindi lui la mascherina non l'avrebbe mai portata, perché non avrebbe mai rinunciato alla sua libertà, senza nemmeno sapermi dire quali fossero i diritti che indossare la mascherina gli avrebbe tolto.

La banalità con la quale quell'uomo liquidò la questione mi colpì immediatamente, perché se nella sua mente essa era una valida spiegazione, per me era un tentativo di giustificare un comportamento che sapeva perfettamente qualcuno gli avrebbe rimproverato. Stava mascherando la propria decisione di non indossare la mascherina con l'abito della disobbedienza civile.

Semplicemente un racconto che facciamo a noi stessi per non dover rinunciare al nostro stile di vita.

Come dimenticare il tormentone "non ce n'é coviddi" che questa estate ha imperversato per qualche tempo sui social, e che riassume perfettamente questo spirito: la negazione come strumento di giustificazione della propria condotta.

Tuttavia pensare che da questi due esempi si possa ricavare la riposta alla domanda "a quanto siamo disposti a rinunciare?" è sbagliato, perché il rischio che si corre è di osservare la realtà con sguardo eccessivamente orientato alla condanna; quel che permette di darsi una risposta non è quindi il comportamento in quanto tale, ma il suo fondamento, e l'eventuale mancanza di consapevolezza delle possibili conseguenze di un'eccessiva leggerezza o irresponsabilità.

Quel che è sembrato sfuggire, nel dibattito pubblico pressoché infinito su come ci si dovesse comportare, occupato com'era a cercare responsabili e distribuire condanne, è stata la consapevolezza di dover trascendere dalla dimensione individuale, e doversi necessariamente pensare come membro di una comunità.

Ecco quindi che la rinuncia alla tradizionale festa di capodanno è stata necessaria, ancorché triste; ed ecco quindi che la rinuncia alla classica serata con amici può acquisire un senso: rinunciare a quanto abbiamo di caro o solamente a quelle abitudini che avevamo prima e che la situazione ha imposto di riconsiderare.

E quindi, nei mesi che separano la collettività dalla vaccinazione, è sempre bene essere consapevoli che quelle rinunce temporanee alle quali siamo chiamati non sono solo ed esclusivamente per noi, ma estendono le proprie conseguenze anche a persone che magari non abbiamo neppure mai visto: perché le società non si costruiscono attorno a innumerevoli individualismi, ma hanno bisogno, oltre che della soddisfazione dei legittimi bisogni personali, di quello spirito di comunità e di quella empatia che permette al singolo di servirsi della forza del gruppo per superare ogni difficoltà.

Ed è solo su questa logica che si può accettare, seppur non sempre con estrema convinzione, la rinuncia temporanea a ciò che ci piace.






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