Oh universitario(/a, *) che leggi queste parole, che tu sia reduce dalla sessione o che tu sia ancora sotto esami, dimmi: chi è il migliore amico degli studenti?
Forse il cane, che si mangia i compiti e ti offre una scusa per non farli? O forse il gatto, che appena apri il libro sulla scrivania ci si siede sopra e ti offre una scusa per non studiare? No, la risposta corretta è un’altra: il caffè!
Caffè, caffelatte, cappuccino, macchiato, in vetro, alto, zuccherato o amaro, in un modo o nell’altro è presente nella giornata di qualunque studente (diffidate di chi non beve caffè!) e ne costituisce un momento chiave.
Eppure non è sempre stato così. Magari normalmente non ci pensiamo, ma c’è stata un’epoca in cui l’essere umano non conosceva il caffè. Certo, detta così parrà un’ovvietà; già meno ovvio è in che epoca è stato scoperto il caffè.
L’origine del migliore amico degli studenti è a metà fra storia e leggenda. Sul quando e sul dove sembrano esserci pochi dubbi, sul come invece siamo molto più incerti. Verosimilmente, il caffè affonda le sue radici nel IX secolo a Kaffa, nell’altopiano etiope. Per quanto riguarda le modalità della scoperta, secondo una storiella che sa molto di fittizio, un pastore etiope notò che le capre del suo gregge di notte non dormivano; chiese allora consiglio ai monaci di un vicino monastero e questi notarono che le capre andavano ghiotte di alcune bacche simili a ciliegie. Per scoprire se erano davvero quei frutti a tenere sveglio il gregge, i monaci si prepararono un infuso di tali bacche e, ovviamente, per tutta la notte non riuscirono a prendere sonno: era nato il caffè!
Da Kaffa, probabilmente, prende il nome il protagonista della nostra storia; tuttavia vi sarebbe un’altra possibile spiegazione, secondo cui “caffè” deriva da qahwa, che in arabo vuol dire “eccitante”. Già, perché nel mondo arabo la bevanda si diffuse molto in fretta; nell’ambito di guerre o commerci, gli etiopi la esportarono in Arabia, Yemen ed Egitto e da qui poi il caffè divenne popolare in tutto il mondo musulmano. Per i seguaci di Allah infatti vige il divieto di consumare alcol e il caffè ne divenne un buon surrogato: a lungo, presso gli europei cristiani, esso fu pertanto noto come “il vino d’Arabia”.
Ci vollero tuttavia secoli prima che il caffè divenisse comune anche presso gli europei, soprattutto perché per lungo tempo nessuno riuscì a sottrarre ai musulmani il monopolio della sua produzione. D’ora in avanti, vedrete, la storia della coltivazione del caffè assume i tratti di un film di James Bond: parleremo infatti di spionaggio, furti e segreti industriali.
Possiamo dire con una certa sicurezza che è il ‘500 il secolo in cui gli europei scoprirono il caffè. Dapprima sottobanco: i turchi ottomani, il cui impero arrivava fin quasi a Vienna, intrattenevano con questa dei commerci. Vienna fu dunque la porta attraverso cui il caffè giunse in Europa. Inizialmente era una rarità: costosissimo e (alla pari di molte altre spezie, cui veniva assimilato) impiegato dagli speziali come medicina. Col tempo la bevanda divenne più nota al grande pubblico, anche grazie ai resoconti di viaggiatori provenienti dal mondo musulmano; scriveva per esempio il veneziano Giovan Francesco Morosini nel 1585 che gli arabi erano soliti bere “un’acqua negra, bollente, che si ricava d’una semente che si chiama cavée, la quale dicono che ha la virtù di far stare l’uomo svegliato”.
Sulle dicerie che nacquero attorno a questo nuovo prodotto, peraltro di origine musulmana e dunque sospetta a prescindere agli occhi dei cristiani, potremmo aprire una lunga parentesi. La Chiesa cattolica, accogliendo delle voci che esaltavano il potenziale stimolante ed eccitante del caffè, lo ritenne un intruglio blasfemo, che stimolava la lussuria e il peccato. Venne definita “la bevanda del Diavolo” e si giunse anche a vietarne il consumo, almeno finché, all’inizio del ‘600 papa Clemente VIII tolse il divieto. Secondo un aneddoto lo fece perché egli stesso era un assiduo bevitore di caffè ed era convinto che fosse un peccato lasciare una bevanda così buona all’esclusivo uso degli infedeli.
Sul finire del ‘600 ormai gli europei si erano convertiti alla caffeina. Non dimentichiamo che durante il periodo dell’illuminismo nacquero quei luoghi di ritrovo e dibattito culturale chiamati proprio “Caffè”, mentre in Italia fu chiamato così un giornale diretto dall’illuminista Pietro Verri. Mancava però ancora un tassello affinché questa “civiltà del caffè” potesse affermarsi in Europa: la coltivazione del prodotto.
Ancora per tutto il Seicento il caffè fu un prodotto di importazione, coltivato dagli arabi e rivenduto a caro prezzo. Furono gli olandesi, alla fine del secolo, i primi ad avviare delle colture in proprio; vi riuscirono grazie all’aiuto di un indiano musulmano, Baba Budan, che di ritorno dal pellegrinaggio alla Mecca riuscì a portare agli olandesi dei chicchi di caffè che aveva trafugato in città. Gli olandesi poterono perciò iniziare a coltivare delle piante nelle loro colonie.
A inizio del ‘700 un paio di piante vennero donate al re di Francia Luigi XIV, il celebre “Re Sole”, ma l’ufficiale di marina Gabriel de Clieu riuscì a rubarne una e a scappare oltreoceano in una rocambolesca traversata: quella piantina fu la sua fortuna. In pochi anni, partendo da essa riuscì ad avviare la coltivazione del caffè nelle colonie francesi.
Nel corso del ‘700 le colture si diffusero in tutto il continente americano, dalle colonie inglesi (in cui veniva fatto coltivare agli schiavi importati dall’Africa) al Brasile. Proprio nel caso del Brasile si ripeté una simile storia di “spionaggio industriale”: la coltura fu avviata infatti dal nobile Francisco Palheta, il quale riuscì a sgraffignare alcuni chicchi dal giardino del governatore di Caienna, che lo aveva invitato a pranzo. Da quei pochi chicchi, il Brasile creò un impero commerciale tale che ancora oggi è il primo produttore mondiale di caffè.
Pensate un po’, se il caffè potesse parlare, quante cose ci racconterebbe! Originario dell’Etiopia, giunto fino al Brasile in un viaggio durato secoli, che lo ha portato attraverso l’Arabia e Vienna, passando per le colonie olandesi in Indonesia e per i giardini di Versailles. Ci potrebbe testimoniare incontri tra culture diverse; talvolta violenti, come la schiavitù degli afroamericani nelle piantagioni; talvolta pacifici, come quello tra Morosini e i suoi ospiti quando, seduti davanti a una tazza di caffè, hanno scoperto che le differenze a volte ci separano, ma ci possono anche unire.
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