Da quando si è verificata l’invasione dell’Ucraina da parte delle forze della Federazione Russa si è tornati a parlare ampiamente del tema della guerra.
Il punto è: quanto accuratamente?
Andando di poco indietro nel nostro passato recente ci ritroveremmo nel pieno della pandemia da Covid-19. E come non ricordarsi delle infinite raccomandazioni e delle misure di sicurezza che tutti, o quasi, cercavamo di seguire al meglio delle nostre forze?
Trattavasi di istruzioni, o comunque di informazioni, delle quali venivamo costantemente resi edotti tramite i cosiddetti “esperti”; medici in quel caso.
Tornando ora alla guerra potrei forse esprimere un parere piuttosto difforme dal comune sentire, poiché il tema bellico viene oggidì usualmente affrontato sempre in chiave sia buonista sia filosofico-etica; mentre sarebbe gradita, accanto a queste, anche una spiegazione tecnica intrinsecamente connaturata al funzionamento dei conflitti.
Perché la guerra, come molti altri fenomeni, è un qualcosa di assai complesso che non può essere descritto né in maniera raffazzonata né tralasciando le tecnicalità fondamentali della disciplina, detta Polemologia (dal greco polemos, guerra), che appunto si occupa di indagare gli aspetti congeniti delle cose militari.
Offrire all’opinione pubblica una lettura distorta di una guerra o di una fenomenologia militare può produrre conseguenze assai negative, come ad esempio il risveglio di soggetti provenienti da varie estrazioni e realtà marginalmente estreme pronti ad usare violenza e fomentare il panico nelle masse.
Ma con questo non si pensi che si renda necessario elaborare chissà quale teoria sovversiva o pacifista; giacché risulta sufficiente forzare l’interpretazione di un fatto di cui è competente a conoscere solo la storia militare al fine d’imbastire un ragionamento volto ad ottenere una conferma dei propri convincimenti e punti di vista.
Un simile errore è per esempio ravvisabile nel pamphlet di Michele Santoro “Non nel mio nome” recentemente edito da Marsilio, anche se di casi se ne possono ravvisare in quantità.
Se infatti il nostro autore si scaglia contro i componenti del Consiglio di Sicurezza ONU, sostenendo che invece di cercare la pace e la cooperazione si dedicano alla produzione incessante di armamenti, per poi scrivere che
“L’esplosione della prima bomba nucleare a Hiroshima aveva provocato più di duecentomila vittime… Ammazzarli non fu un effetto collaterale, ma una scelta compiuta dai vincitori a guerra praticamente finita. Colpire obiettivi militari non avrebbe creato tra gli sconfitti la stessa ondata di mostruosa paura, costringendoli a firmare rapidamente la resa. Lo scopo di una guerra non è mai morale, non è mai umanitario: è quello di schiacciare il nemico con qualunque mezzo” (M. Santoro; pp. 8-9. 2022).
Il primo errore che si nota in questa ricostruzione è la descrizione fallace della decisione tattico-operativa di colpire Hiroshima con un ordigno atomico nella fase finale del confronto tra Stati Uniti e Impero del Giappone nel 1945. Esso si compone di due parti; una storico-strategica ed una comparatistica.
Per la prima ciò che possiamo dire è che chiunque abbia studiato la Campagna del Pacifico sa perfettamente come i giapponesi avessero fortificato tutta la miriade di isole ed isolette poste dirimpetto alle cinque maggiori dell’arcipelago giapponese, costituito da quasi settemila unità in totale e non tutte abitate. Questo aveva reso assai arduo per gli americani farsi strada contro le forze nipponiche, che malgrado le difficoltà riuscivano a tener testa all’avversario con grande tenacia grazie alla loro straordinaria tradizione militare incentrata su vari fattori spirituali e valoriali. Per gli americani non lanciare le due bombe avrebbe comportato snidare i giapponesi da ogni singola posizione ancora in loro possesso, esponendosi ogni volta alle temutissime cariche banzai nonché ad azioni di guerra irregolare ed abnormi difficoltà logistiche. Impensabile sarebbe stato poi pensare di invadere alla maniera classica le cinque isole maggiori con l’intento di avanzare verso Tokyo e poi a nord sino ad Hokkaido. Il Giappone avrebbe dissanguato sé stesso pur di cacciare via il nemico dal proprio suolo sacro.
Ma c’era un nuovo strumento a cui il saldo spirito nipponico non poteva opporsi, ovvero la bomba nucleare. Ecco perché gli americani usarono quegli ordigni, non per crudeltà intrinseca e fine a sé stessa; ma per strategia (il lettore si ricordi inoltre che al tempo il potenziale di quelle bombe era molto ridotto rispetto a quelle attuali).
Se poi giungiamo alla seconda parte dell’errore menzionato; occorre evidenziare come sia analiticamente sbagliato l’utilizzo di un argomento di natura tattica per porre le basi di una giustificazione affine ad un timore a noi contemporaneo il cui contesto è totalmente sconnesso da quello col quale viene posto in comparazione, dato che non considera neanche lontanamente tutto il portato ricavabile dall’esperienza dell’equilibrio nucleare che ha connotato la Guerra Fredda.
In definitiva; non si può effettuare una comparazione, soprattutto di matrice temporalmente diacronica, se i parametri e gli indicatori di riferimento non si dipingono come armonizzati.
Ma c’è un’argomentazione, alla fine del passo sopracitato, che desta ancor più interesse.
Se ci si interroga sull’impossibilità per la guerra di darsi un fine morale od umanitario, ma di converso se ne sostiene il solo proposito di distruzione dell’avversario, si fa confusione tra obiettivo e mezzi di raggiungimento dello stesso.
Io ribadisco sempre che per poter parlar di guerra bisogna aver letto almeno Von Clausewitz e Sun Tzu. Prendendo come riferimento il celebre teorico prussiano possiamo ricavare un correttivo capace di riordinare i concetti ivi esaminati.
Una guerra ha sempre una sua ragione di continuità che la lega alla politica, e di solito interviene laddove la diplomazia non compie più alcun progresso.
Ora una guerra può essere originata da una pluralità di fattori assai composita, ed al contempo può rispondere ad una variegata gamma di tipologie. Ad esempio le operazioni di imposizione della pace, al contrario di quanto sostiene il nostro autore, sono missioni aventi per iscopo un proposito che è sicuramente umanitario in quanto aiutante in positivo il mantenimento di condizioni stabili allorché la diplomazia non ci è riuscita. Quello che l’odierna narrazione semplicistica tende ad omettere è che possono sussistere più fini, umanitari e materiali, nell’alveo della medesima guerra.
Ma, più in generale, sempre grazie a Von Clausewitz affermiamo che, in luogo della persistenza di molteplici scopi possibili, la guerra ha un solo mezzo di applicazione e di funzionamento; ovvero l’annientamento dell’avversario, che non significa necessariamente la distruzione totale del paese nemico visto che può assumere varie connotazioni in base alla casistica di riferimento.
In sostanza una guerra deve avere un vincitore ed uno sconfitto, ed i criteri atti a stabilire di chi sia la vittoria e di chi la sconfitta si ricavano dal contesto di origine del conflitto stesso. Nulla di più e nulla di meno.
Sostenere al contrario la negatività a priori del muovere guerra significa andare contro la storia stessa.
Non era morale ed umanitario combattere Hitler invece di dar seguito ai dettami di Chamberlain ed Halifax? Non era morale ed umanitario porre fine ai massacri jugoslavi? E non è forse morale e umanitario supportare un paese che si è visto invadere col rischio di compromettere la propria tenuta?
Qualcuno dirà che non è interesse dell’Occidente immischiarsi in simili affari regionali e che fornendo armi si finisce per dichiarare guerra noi stessi, e qualcun altro osserverà che non facendo niente si finirà con l’avallare ogni pretesa di matrice dittatoriale, come già Churchill ebbe a dimostrare, e che numerosi sono i casi in cui si è fornito armamenti senza entrare in un conflitto; come durante la Guerra Civile Spagnola, quando l’URSS sostenne una parte e l’Italia e la Germania un’altra mandando armi, aerei e materiali.
Con questo si vuole forse sostenere di dover sempre giustificare ed accettare una guerra? Giammai; ma si vuol far capire che, in luogo di vaniloqui vagheggianti ed ideologici, uno studio empirico e razionale del fenomeno bellico è la sola via capace di offrire le conoscenze con le quali concludere un conflitto.
Non si può fermare una qualsivoglia dinamica se non la si conosce ma la si rifiuta solamente.
E allora, prima di lanciare noi stessi in interventi erronei, torniamo a leggere cosa sulla guerra dissero gli antichi, Hegel, i grandi teorici e studiamo ancora più a fondo la storia militare e delle relazioni internazionali.
Allora la Ragione potrà prevalere sull’ideologia mendace e fuorviante.
Leonardo Lucchesi
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