Qualunque sia la verità è il grande giorno ormai
c’è una via nelle mie mani non mi tradirà
c’è un mondo che mi attira già in questa azzurità
io non so se il pazzo sono io o sei tu che rimani qua
Andare per andare via io non cerco una città
ma il confronto di un’anima con la sua libertà
Andare andare andare andare via
dove non ti perdi mai
e si ostinano a vivere i grandi sogni miei
Andare per andare cantava Franz Di Cioccio, voce della Premiata Forneria Marconi (PFM). Respirare la libertà, dare sfogo ai propri sogni che, testardi, non temono di essere spenti. Non il, ma un mondo da scovare: il proprio mondo, forse un miraggio, forse raggiungibile attraverso una via che si agguanta con le mani, una scelta che non tradirà, a prescindere dalla verità che permea, e ogni tanto costerna, tutto. Ogni viaggio, al di là della meta, è una crescita, un’occasione per abbeverare l’anima assetata di ardente curiosità per il nuovo, allargando gli orizzonti conosciuti, abbattendo la consuetudine. Ed è impossibile non trarne qualche insegnamento.
Così decisi di regalarmi un viaggio in Inghilterra per fine ottobre, un po’ garibaldino visto il periodo funestato dalla pandemia: era da tempo che non mi perdevo nell’incoscienza, come chi, ancora acerbo e ingenuo, seppur abbia sul “groppone” diverse bastonate pregresse, spera di poter prendere a morsi la vita. Diciamo che il prediligere l’istinto sulla ponderatezza, una rarità a me ignota, è stato un tentativo riuscito a metà... confesso che i giorni precedenti al decollo erano adombrati da un’ansia malsana. Un po’ perché sarebbe stato il mio primo viaggio da solo, con il mio paio di scarpe, zaino in spalla e valigia appresso. In buona dose perché sarei tornato a volare per la prima volta dall’intervento chirurgico subito al polmone qualche anno fa, a causa del quale ho dovuto evitare voli e sbalzi di pressione per mesi. In parte perché sarei entrato nella “tana del lupo”, se con lupo si intende il Covid, dato che i casi giornalieri in Gran Bretagna si aggiravano sui 50 mila, quasi il triplo rispetto a quando avevo progettato la mia vacanza nella terra della Regina Elisabetta.
Il giorno è arrivato. Volo da Pisa, Ryanair, alle 10 del mattino. Sveglia alle 5:00, partenza alle 6:00, arrivo in aeroporto alle 8:00. Tutto liscio come l’olio, puntuale più di un metronomo svizzero. Atterraggio a Stansted, nella zona più italiana di Londra... e menomale che di italiani era pieno l’aeroporto, compresi gli spazi dietro i banconi degli info point, perché il mio fedele zoppicante Coop Voce ha deciso di abbandonarmi e di prendersi con sé la connessione dati per un paio d’ore. Risultato? Ho chiesto più informazioni a chiunque mi capitasse a tiro di quanti esami abbia sostenuto all’università. Della serie “sembrava impossibile ma ce l’abbiamo fatta”: dopo mezz’ora di disorientamento ho trovato la biglietteria automatica per ritirare il ticket che avevo meticolosamente prenotato prima della partenza. Mi sono fiondato sul treno, fermata Liverpool Street Station.
Lì ho incontrato Anna, una giovane donna sulla quarantina di Bologna, laureata in DAMS. Mi ha raccontato di quanto fosse stata sbeffeggiata per aver scelto studi umanistici, di quando aveva sostenuto l’esame di diritto e per prepararsi si era rivolta alla biblioteca di giurisprudenza per non spendere un patrimonio in manuali. In mezzo a quegli scaffali pieni di libri gli occhi di futuri rigidi avvocati accavallati su di lei, scannerizzando la sua anima da capo a piedi. Lei, con ancora un po’ di bile nello stomaco per quegli anni di merda passati sotto la lente del confronto, mi ha detto: “e sai che palle in Italia, ma serviranno anche gli umanistici alla società no?”. Non avrei potuto chiedere una migliore compagna di viaggio, nonostante si sia scandalizzata perché le ho dato del lei. Giuro che era solo per educazione, non per età. Avevo infatti ipotizzato che la sua oscillasse tra i venticinque e i trent’anni, la stessa che ha poi attribuito a me (pensare che mi ero raso la barba prima di partire...).
Riprendendo le fila del discorso, da Liverpool Street sono saltato sulla metro, cambiato due linee, giunto a Waterloo Station, per il secondo treno di giornata: arrivato con un’ora in anticipo, il che la dice lunga su quanto dubitassi delle mie capacità di orientarmi nel budello sotterraneo londinese. Quindi, giunto l’orario, sono salito sull’Interline, diretto verso Southampton. Infine, sbarcato nell’Hampshire, nell’Inghilterra meridionale, bus fino all’appartamento di un mio amico che mi avrebbe ospitato per circa una settimana.
Dopo aver girovagato per Southampton e aver conosciuto persone molto “open minded”, sono tornato sui miei passi, per respirare l’aria di Londra. Ancora nel budello afoso sotterraneo della metropolitana, colma di orde di donne e uomini in coda e in corsa all’apertura delle porte. Da quel momento si è radicata nel mio petto una sensazione mista di inquietudine e stupore. Immerso nelle strade urbane, con gli occhi sbarrati e spauriti di fronte all’immensità della metropoli, all’aplomb dei taxi e dei bus rossi sfreccianti, mi sono concesso alla brezza sopra al London Bridge e al Big Ben riflesso nell’iride. E la massa di persone che mi circondava, mi trascinava... e mi inghiottiva. Percepivo un odore di malinconia, nelle corde dell’aria fuligginosa e nella folla impressionante di burattini in serie che attraversavano le strisce pedonali invisibili (perché non sono zebrate), tutti nella stessa direzione. La calca si ammassava ai semafori (in Gran Bretagna i semafori secondo me sono calibrati male: il verde per i passanti dura 5 secondi, il rosso un giorno e mezzo. Il giallo, se ve lo state chiedendo, non esiste nemmeno. Quindi lo scherzo di prendersi una multa salata e qualche punto sulla patente per essere incappato nel secondo dopo la trasformazione del giallo ambra in rosso valentino non è proprio contemplato). Provavo ad incrociare qualche sguardo, per vedere quanta luce ci potesse essere in quegli occhi. Ma ho fallito. Colpa delle mascherine che oscuravano i volti? Non credo, in Inghilterra “non era e non è di moda portarla”. E menomale che ne avevano da poco obbligato l’uso su mezzi di trasporto e luoghi pubblici al chiuso. Grazie a questa restrizione, messa e lasciata libera di marcire su se stessa, un individuo su quattro in media aveva una chirurgica addosso.
Desolazione, perché mentre stavo tra perfetti sconosciuti, mi sentivo solo e al contempo accompagnato, nessuno eppure al sicuro, vuoto e parte del tutto. L’appartenenza a qualcosa più grande di me mi avvolgeva, sussurrando e seducendomi all’orecchio. Qualcosa più grande di me, di cui non possedevo il comando. E alcune volte se non ho il controllo su quello che faccio o sulla situazione che ho attorno, percepisco la possibilità che sopraggiunga il panico.
A sostegno di quanto vissuto, mi sovviene Gustave Le Bon (1842-1931), psicologo e sociologo francese, che, nella sua opera più celebre, Psicologia delle folle (1895), sostenne l’entrata in scena delle masse con l’avvento dell’industrializzazione e ne elaborò una fenomenologia, esaminando il comportamento dell’individuo nella folla.
“Quali che siano gli individui che compongono la folla, il solo fatto di essere trasformati in massa li dota di una sorta di anima collettiva, in virtù della qual essi sentono, pensano e agiscono in modo del tutto diverso da quello in cui ciascuno di essi, preso isolatamente, sentirebbe o penserebbe e agirebbe”
scrisse Le Bon, il quale aggiunse:
“La massa psicologica è una creatura provvisoria, composta di elementi eterogenei saldati assieme per un istante [...] l’individuo non è più lui medesimo, ma un automa che la volontà non può più guidare. Cede a istinti a cui non avrebbe ceduto fosse stato da solo. Non è più consapevole di quel che fa”.
Lo studioso francese sosteneva che l’individuo subisse un processo di degradazione e di abbassamento intellettuale all’interno di un collettivo, che la personalità cosciente svanisse, che i sentimenti e le idee di tutte le unità si orientassero nella medesima direzione. Ipotizzava quindi la genesi di un’anima collettiva, senza dubbio transitoria, ma con caratteristiche precise, principalmente irrazionale ed emotiva.
Prima di lui Gabriel Tarde (1843-1904), criminologo e sociologo transalpino, comparò la folla a un aggregato rudimentale e amorfo, senza responsabilità né razionalità, moralmente e intellettualmente inferiore alla media dei componenti e guidata da istinti incontrollabili e imprevedibili.
Ero passivo in tutta quella baraonda di gente, di sospiri e di occhi trascurati dietro alle mascherine, eppure ne ero affascinato, anche malinconico, forse perciò masochista. Mi ero quasi dimenticato di quanto fosse grande il mondo, o meglio di quanto fosse grande Londra, che del mondo è solo un punto. Mi ero dimenticato delle persone fuori, distanti ed estranee da me. Delle loro storie. Do la colpa al covid, anche se so bene che ha colpa solo in parte. Mi ero lasciato abbandonare dal ritmo spento ma logorante della pandemia, tra incertezze e incomprensioni, nella sciattezza e nel dolore. Per me è scoccata l’ora della ripartenza. Viaggiare per respirare e sorridere, sognare e ritrovare la voglia di costruire.
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