top of page
marcobecherini159

"Il mucchio selvaggio" - Come Sergio Leone ha cambiato il western

In un articolo precedente è stato recensito “Per un pugno di dollari”, primo film western di Sergio Leone e caposaldo del genere. Leone infatti è ricordato come “l’italiano che insegnò agli americani a fare film western”… che è un po’ come se un regista americano, non so, diciamo Ridley Scott, venisse in Italia e pretendesse di fare un film su un gladiatore dell’antica Roma… ah già, ma è successo davvero!


A parte gli scherzi, Leone ha avuto tantissimi meriti, ha ridato vita a un genere cinematografico in declino, rendendolo più crudo, reale e sporco (anche in senso letterale: Clint Eastwood ha recitato in tre dei suoi film sempre con lo stesso poncho!). Ma il suo merito principale è quello di aver introdotto nei suoi film la moralità, e badate bene: non la moralità dell’eroe senza macchia e senza paura, ma la moralità realistica che può avere un uomo in carne ed ossa, la moralità come la poteva intendere un pistolero che lotta per sopravvivere. Pensate solo questo: in uno dei suoi film Leone ci narra le vicende di tre avventurieri, definiti già dal titolo come uno buono, uno brutto e uno cattivo… ebbene, se alla fine del film ci mettiamo a contare, verrà fuori che il buono ha ucciso più gente degli altri due messi insieme.


Ed è proprio questa moralità ad essere il lascito più importante di Leone al cinema (molto più delle inquadrature strette che piacciono tanto a Tarantino). Ed è proprio questa moralità sporca, primitiva e brutale ad essere il fulcro di “Il mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah.


“The wild bunch”, questo il titolo originale, è una pellicola western del 1969, considerata uno dei capolavori del regista e, più in generale, dell’intero genere: qualche anno fa il Guardian la inserì al secondo posto tra i migliori film western di sempre (primo, manco a dirlo, “C’era una volta il west” del nostro Leone).


E proprio con “C’era una volta il west” il film di Peckinpah condivide l’ambientazione moderna e malinconica: ci troviamo in un west crepuscolare… niente amici al tramonto (semicit, se la indovinate 10 punti a Grifondoro). “Il mucchio selvaggio” è ambientato infatti nel 1913: molto tardi per un film di questo genere; in quel periodo storico la grande epoca del west di frontiera volgeva al termine e questa sensazione che si stia chiudendo una fase aleggia nell’aria per tutto il tempo.


La narrazione si apre col “mucchio” (la banda di pistoleri che dà il nome all’opera) che, dopo una rapina andata male, braccato da dei cacciatori di taglie, si sposta in Messico, verso il villaggio natale di uno dei membri del gruppo. Giunti qui, i cowboy si troveranno irrimediabilmente invischiati nella guerra civile che proprio in quegli anni stava vessando il paese. In questo contesto di conflitto faranno la conoscenza del crudele generale Mapache (personaggio d’invenzione) che sta devastando i dintorni del villaggio. Combattuti tra fare l’interesse del gruppo, mettendosi in affari col generale (e i ricchi industriali europei che lo sostengono), e aiutare il singolo membro Angelo a difendere la sua terra, si ritroveranno a vagare in una zona grigia tra Bene e Male, senza saper scegliere una parte… almeno fino al crudo e stupendo finale.


Perché, è bene chiarirlo, i pistoleri del mucchio non sono eroi: il film comincia mentre loro fanno una rapina in banca… dunque sono criminali? Sì, ma no, forse. La grandezza del film è quella di saper creare dei personaggi che sfuggono alla semplice etichetta di buoni o cattivi. I protagonisti non sono idealisti che combattono per qualche sogno utopico; d’altro canto nel corso della storia dimostreranno di non essere neanche banali mercenari che uccidono per soldi. Dei valori in fondo ce li hanno; o meglio, hanno un valore: quello della banda.

Non lo si può definire semplicisticamente “amicizia”: questi sono rudi cowboys, che non esitano a litigare fra sé mettendo pure mano alla pistola. Nemmeno “cameratismo” basta a definirlo, benché ci si avvicini. No, il valore della banda è più sacro e ancestrale, quasi animalesco: possiamo pure detestarci e scannarci, ma noi siamo noi (“e voi non siete un ca**o”, altra semicit, del Marchese del Grillo) e siamo un gruppo. E finché siamo un gruppo, rimaniamo insieme, qualunque cosa accada: “e se non sapete stare insieme, siete peggio delle bestie”, frase iconica del capogruppo Pike, vero protagonista del film.


William Holden è Pike, il capo della banda

In fondo è proprio la banda, intesa come concetto astratto, la vera protagonista della storia. I tempi possono cambiare, gli uomini possono morire, ma il gruppo rimane; il gruppo sopravvive anche alla scomparsa dei suoi membri (sembra il paradosso della nave di Teseo, ma è così).



In conclusione, nonostante (secondo la leggenda) tra Leone e Peckinpah non corresse buon sangue, è evidente che ci sono dei collegamenti fra le loro opere. “Il mucchio selvaggio” di Peckinpah è un ottimo esempio di come il cinema western ha recepito la lezione di Leone. Se i classici film sul west raccontavano storie eroiche e stereotipate di buoni contro cattivi (solitamente indiani) e donne ridotte a comprimarie passive; le pellicole post-Leone narrano storie ciniche di protagonisti psicologicamente complessi che si barcamenano come possono in un mondo brutale e prettamente maschile. Forse meno politically correct (e dico forse), ma molto più vero.


Post recenti

Mostra tutti

Fahrenheit 451

Tramite la collaborazione tra l'associazione "Csx" Firenze e il teatro cinema La Compagnia, in via Camillo Cavour a Firenze, lunedì 13...

Comments


bottom of page